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Ciao, finalmente!

Eccoci, ci ritroviamo!

Un fastidioso sintomo

<img filer_id="224280" src="/d/filer/sharing/1602655464/224280/" title="" align="" thumb_option="" original_image="false" style="float: right; margin: 10px; height: 741px; width: 300px;" data-cke-saved-src="/d/filer/sharing/1602655464/224280/">Diego arriva nel mio studio proprio per questo e la prima cosa che mi comunica, con la sua grande cortesia, è: “Salve, sono qui perché forse ho un disturbo psicosomatico”. Si era documentato su Internet e aveva individuato quel bel parolone. Scoprirò più avanti che in quel periodo erano successe molte cose: tra le più importanti basta dire che era morto suo nonno, del quale si era sempre occupato, e che si era innamorato di Vanessa, la sua nuova compagna di classe arrivata da un’altra città. L’assenza del nonno in casa si faceva sentire in modo molto prepotente, ma lui aveva sempre cercato di consolare la nonna, i genitori, il fratello e di fare il suo dovere ancora più di prima. Vanessa, nel frattempo, gli si era seduta vicino di banco, così si erano conosciuti meglio, e lui aveva iniziato a sentire “cose”. Queste “cose” erano a tratti belle, a tratti dolorose: parlandone insieme capiamo che si chiamavano “attrazione”, perché Vanessa gli piaceva tanto; si chiamavano “rabbia”, perché gli sembrava che a Vanessa piacesse un altro; si chiamavano “invidia” per questo compagno e “speranza” quando lei gli dedicava tempo e attenzioni, “tristezza” quando non succedeva e “felicità” quando passavano il pomeriggio a studiare insieme in biblioteca. Insomma, Battisti direbbe che tutte le cose che Diego stava sentendo in quel periodo si chiamavano (se vuoi) “emozioni”. E Diego non aveva dimestichezza con le emozioni. Quello che aveva imparato per essere apprezzato e riconosciuto dai suoi familiari, e in generale dalle persone per lui importanti, era essere molto premuroso, prevedibile e ragionevole. Ciò sicuramente gli aveva permesso di ottenere molte cose belle nella vita, in particolare di essere ritenuto una persona affidabile sia dai suoi amici sia dai professori, di avere risultati brillanti, di essere un punto di riferimento perché considerato “tutto di un pezzo”. Ed essere così aveva funzionato fino a che, complice la sua adolescenza e i cambiamenti che essa comporta, non erano arrivate troppe emozioni tutte insieme,&nbsp;difficili da mettere in un angolo. Quell’onda emotiva era stata proprio troppo per lui, e di tutte quelle “cose” dentro non sapeva cosa farsene. Ecco allora il mal di testa: da qualche parte dovevano pure andare a finire! E in un certo senso il dolore del corpo, seppur portatore di un ulteriore malessere, per Diego era forse più semplice da raccontare di quel tumulto senza nomi.

Ma ecco che a metà del secondo anno del liceo classico Diego inizia ad accusare un po’ di mal di testa. Un fastidio continuo, che gli rende tutto poco sopportabile, e lentamente lo porta a sentire che è più faticoso di prima andare a scuola, fare sport, uscire con gli amici. I genitori, preoccupati, lo portano da svariati medici, facendogli effettuare molte visite specialistiche per cercare di capire che problema abbia. Ma la risposta è sempre più o meno questa: “Dalle analisi effettuate non si riscontrano patologie che possano giustificare la sintomatologia presentata dal paziente”. Un cruccio questo, sia per Diego sia per i suoi genitori, perché non poter dare un nome a quel fastidio dà quasi più fastidio del fastidio stesso. Fino a che l’insegnante di filosofia gli suggerisce di provare a parlare con uno psicoterapeuta: “E se tu avessi troppi pensieri?”.

Troppe emozioni, tutte insieme

(Nome del ragazzo, caratteristiche e fatti sono stati modificati a tutela della sua privacy)

Tutto questo, ovviamente, è emerso lentamente, come lentamente è stato possibile insieme dare un nome alle varie “onde” – così le chiamava – che sentiva a volte nella testa. Non ne ha più avuto bisogno, perché non serviva più far parlare il corpo, mano a mano che trovava altri modi per esprimere le sue emozioni. Se all’inizio gli sembrava “strano”, addirittura “assurdo” parlare di sé – così diceva –, gradualmente ha iniziato a piacergli, fino ad arrivare ad avere la sensazione di “scrivere e leggere un libro nello stesso momento”. Ora Diego ha 18 anni ed è comunque un bravo ragazzo. Va bene a scuola, è sportivo, gentile, cortese, ha tanti amici ed è adorato da molti. Ma quando prende un bel voto festeggia la sera con gli amici e a volte, invece, se capita di discutere si arrabbia, dice quello che pensa e difende la sua idea anche se qualcuno può non essere d’accordo. A volte ride così forte che non riesce più a smettere per cinque minuti di fila. Ai concerti balla e canta a squarciagola la musica che gli piace. Quando si innamora, lo sente e prova a dirlo. E a volte piange, perché è triste, ma anche perché magari è felice. Felice di non essere perfetto.

Quando l’ho conosciuto, Diego aveva 16 anni ed era sempre stato un bravo ragazzo. Cordiale, gentile, socievole, sempre garbato nei modi e nei toni, “neanche da piccolo piangevi mai!”, gli ricordavano fieramente i genitori. Era stato educato all’osservanza di regole molto precise perché, vivendo anche con i nonni molto anziani, era importante che rispettasse gli orari – soprattutto quelli del silenzio – e che aiutasse in casa. Si era sempre mostrato come un esempio anche con il fratellino, che rimproverava se faceva qualche capriccio e con il quale cercava di farsi vedere impeccabile, perché gli piaceva ricevere la sua ammirazione.
 
 A scu

Quando l’ho conosciuto, Diego aveva 16 anni ed era sempre stato un bravo ragazzo. Cordiale, gentile, socievole, sempre garbato nei modi e nei toni, “neanche da piccolo piangevi mai!”, gli ricordavano fieramente i genitori. Era stato educato all’osservanza di regole molto precise perché, vivendo anche con i nonni molto anziani, era importante che rispettasse gli orari – soprattutto quelli del silenzio – e che aiutasse in casa. Si era sempre mostrato come un esempio anche con il fratellino, che rimproverava se faceva qualche capriccio e con il quale cercava di farsi vedere impeccabile, perché gli piaceva ricevere la sua ammirazione.A scuola Diego era sempre andato molto bene, anche se nessuno gli aveva mai fatto troppe feste per questo: “È il tuo dovere” si sentiva dire dai familiari quando prendeva un bel voto.

Quando l’ho conosciuto, Diego aveva 16 anni ed era sempre stato un bravo ragazzo. Cordiale, gentile, socievole, sempre garbato nei modi e nei toni, “neanche da piccolo piangevi mai!”, gli ricordavano fieramente i genitori. Era stato educato all’osservanza di regole molto precise perché, vivendo anche con i nonni molto anziani, era importante che rispettasse gli orari – soprattutto quelli del silenzio – e che aiutasse in casa. Si era sempre mostrato come un esempio anche con il fratellino, che rimproverava se faceva qualche capriccio e con il quale cercava di farsi vedere impeccabile, perché gli piaceva ricevere la sua ammirazione. A scuola Diego era sempre andato molto bene, anche se nessuno gli aveva mai fatto troppe feste per questo: “È il tuo dovere” si sentiva dire dai familiari quando prendeva un bel voto.

Un percorso graduale

Non serviva più far parlare il corpo, mano a mano che Diego trovava altri modi per esprimere le sue emozioni

Un bravo ragazzo

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