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La&nbsp; paura dell’errore, e più in generale la paura di sbagliare, sono tra le emozioni più associate alla matematica dagli allievi, fin dai primi anni della scuola primaria.Particolarmente evocativo, da questo punto di vista, il seguente stralcio tratto dal tema “Io e la matematica” di un bambino di prima: “devo sempre cancelare per non fare capire alla maestra che no ho cancelato cancelo molto bene”. L’errore che non deve nemmeno essere sospettato dall’insegnante.È evidente che i bambini non nascono con la paura di sbagliare, che è in un certo senso indotta da diversi messaggi espliciti o impliciti che arrivano agli allievi fin dall’inizio della scuola primaria. L’insegnante adotta spesso comportamenti e fa scelte tese unicamente alla riduzione delle occasioni di errore, come per esempio mettere in guardia dai cosiddetti errori tipici quando è introdotto un nuovo argomento o proporre attività di tipo riproduttivo (esercizi) piuttosto che attività che mettano in gioco il pensiero produttivo (problemi), cercando di minimizzare le possibili occasioni di errore (Zan, 2007). Tali&nbsp; comportamenti e scelte didattiche passano agli allievi un messaggio chiarissimo: “all’insegnante non piace che noi sbagliamo, ci soffre”, quindi “non si deve sbagliare e, nel caso, è importante ‘cancelare’ molto bene”.Ripensare il ruolo dell’erroreNeil Postman nel 1996 pubblica un libro dal titolo interessante: The End of education. Il titolo gioca sul doppio significato della parola “End” in lingua inglese – simile a quello della parola “fine” in lingua italiana – a significare che un’educazione che non ha chiari i suoi scopi è destinata all’inutilità e quindi alla sua fine.Nel libro Postman sottolinea come sia vero che si impari facendo (chiaro riferimento alle teorie costruttiviste di John Dewey), ma il suo punto di vista è che si impara ancor di più sbagliando, per prove ed errori, e proprio sulla base della riflessione sugli errori, propri e altrui.È interessante notare come questo approccio sia coerente, quasi sovrapponibile, con quanto riportato nelle Indicazioni Nazionali per introdurre i campi di esperienza della scuola dell’infanzia:<blockquote>“L’esperienza diretta, il procedere per tentativi ed errori, permettono al bambino, opportunamente guidato, di approfondire e sistematizzare gli apprendimenti”.</blockquote>Se questo è vero a livello di scuola dell’infanzia, a maggior ragione dovrebbe essere vero a livello di scuola primaria, in particolare per l’insegnamento della matematica. Lavo- rare per sviluppare competenze di problem solving e argomentative – gli obiettivi più importanti a livello di traguardi per competenza dell’insegnamento della matematica nella scuola primaria – significa “valorizzare i processi di pensiero degli allievi, invece che focalizzare l’attenzione sulla correttezza delle risposte, e ripensare il ruolo dell’errore e del tempo” (Di Martino &amp; Zan, 2019, p. 12).Tempo per imparare e per sbagliareIl tempo è una variabile importantissima: l’insegnante deve dare e darsi tempo per sviluppare e consolidare competenze rilevanti e complesse. Il ischio è che l’insegnante pretenda (anche da sé stesso) risultati immediati e, se non li ottiene, desista dal perseguire obiettivi cruciali. In realtà, da una parte, l’apprendimento significativo non si può realizzare “al volo”: i risultati immediati sono molto pericolosi (o effimeri o legati a obiettivi di apprendimento circoscritti); dall’altra, desistere dall’impegnarsi a sviluppare competenze cruciali quali quelle&nbsp; argomentative o di problem solving è una condanna proprio per quelli allievi per cui si desiste: quelli che hanno più difficoltà e che hanno occasione di lavorare su aspetti significativi solo a scuola.L’altra variabile è l’errore: gli obiettivi significativi, proprio per la loro significatività, è naturale che comportino delle difficoltà per gli allievi. È necessario che l’insegnante per primo vinca la paura / il fastidio dell’errore dei propri allievi e che veda l’errore sotto un’altra luce: un elemento imprescindibile di un percorso formativo, da non demonizzare, né da ignorare, ma da valorizzare.A questo proposito, Raffaella Borasi (1996) descrive l’errore come il “trampolino per la scoperta” nel processo di apprendimento matematico, introducendo la metafora del perdersi per mostrare come il peso che attribuiamo all’errore dipenda dalla situazione e dall’obiettivo.Spiega Borasi, se ci perdiamo avendo fretta di arrivare in un certo luogo, il perdersi è particolarmente penalizzante e negativo. Se ci perdiamo tornando a casa dalla nuova sede del la- voro, possiamo essere infastiditi, ma sfruttare la situazione per imparare nuovi percorsi potenzialmente utili per il futuro. Se infine ci perdiamo visitando una città, anche avendo inizialmente una precisa destinazione avremo la possibilità di visitare luoghi affascinanti non previsti nel piano iniziale. Ecco, sarebbe bello che l’apprendimento della matematica non fosse visto come il dover arrivare in un certo luogo a una certa ora, con la paura di far tardi, ma come la visita alla scoperta di una città, senza paura di perdersi / fare errori. D’altra parte, come scrive Rodari:<blockquote>“Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa”.</blockquote>

La  paura dell’errore, e più in generale la paura di sbagliare, sono tra le emozioni più associate alla matematica dagli allievi, fin dai primi anni della scuola primaria.


 Particolarmente evocativo, da questo punto di vista, il seguente stralcio tratto dal tema “Io e la matematica” di un bambino di prima: “devo sempre cancelare per non fare capire alla maestra che no ho cancelato cancelo molto bene”. L’errore che non deve nemmeno essere sospettato dall’insegnante.


 È evidente che i bambini
 
 non
 
 
 
 
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 , che è in un certo senso indotta da diversi messaggi espliciti o impliciti che arrivano agli allievi fin dall’inizi

La  paura dell’errore, e più in generale la paura di sbagliare, sono tra le emozioni più associate alla matematica dagli allievi, fin dai primi anni della scuola primaria.Particolarmente evocativo, da questo punto di vista, il seguente stralcio tratto dal tema “Io e la matematica” di un bambino di prima: “devo sempre cancelare per non fare capire alla maestra che no ho cancelato cancelo molto bene”. L’errore che non deve nemmeno essere sospettato dall’insegnante.È evidente che i bambini non nascono con la paura di sbagliare, che è in un certo senso indotta da diversi messaggi espliciti o impliciti che arrivano agli allievi fin dall’inizio della scuola primaria. L’insegnante adotta spesso comportamenti e fa scelte tese unicamente alla riduzione delle occasioni di errore, come per esempio mettere in guardia dai cosiddetti errori tipici quando è introdotto un nuovo argomento o proporre attività di tipo riproduttivo (esercizi) piuttosto che attività che mettano in gioco il pensiero produttivo (problemi), cercando di minimizzare le possibili occasioni di errore (Zan, 2007). Tali  comportamenti e scelte didattiche passano agli allievi un messaggio chiarissimo: “all’insegnante non piace che noi sbagliamo, ci soffre”, quindi “non si deve sbagliare e, nel caso, è importante ‘cancelare’ molto bene”.Ripensare il ruolo dell’erroreNeil Postman nel 1996 pubblica un libro dal titolo interessante: The End of education. Il titolo gioca sul doppio significato della parola “End” in lingua inglese – simile a quello della parola “fine” in lingua italiana – a significare che un’educazione che non ha chiari i suoi scopi è destinata all’inutilità e quindi alla sua fine.Nel libro Postman sottolinea come sia vero che si impari facendo (chiaro riferimento alle teorie costruttiviste di John Dewey), ma il suo punto di vista è che si impara ancor di più sbagliando, per prove ed errori, e proprio sulla base della riflessione sugli errori, propri e altrui.È interessante notare come questo approccio sia coerente, quasi sovrapponibile, con quanto riportato nelle Indicazioni Nazionali per introdurre i campi di esperienza della scuola dell’infanzia:“L’esperienza diretta, il procedere per tentativi ed errori, permettono al bambino, opportunamente guidato, di approfondire e sistematizzare gli apprendimenti”.Se questo è vero a livello di scuola dell’infanzia, a maggior ragione dovrebbe essere vero a livello di scuola primaria, in particolare per l’insegnamento della matematica. Lavo- rare per sviluppare competenze di problem solving e argomentative – gli obiettivi più importanti a livello di traguardi per competenza dell’insegnamento della matematica nella scuola primaria – significa “valorizzare i processi di pensiero degli allievi, invece che focalizzare l’attenzione sulla correttezza delle risposte, e ripensare il ruolo dell’errore e del tempo” (Di Martino & Zan, 2019, p. 12).Tempo per imparare e per sbagliareIl tempo è una variabile importantissima: l’insegnante deve dare e darsi tempo per sviluppare e consolidare competenze rilevanti e complesse. Il ischio è che l’insegnante pretenda (anche da sé stesso) risultati immediati e, se non li ottiene, desista dal perseguire obiettivi cruciali. In realtà, da una parte, l’apprendimento significativo non si può realizzare “al volo”: i risultati immediati sono molto pericolosi (o effimeri o legati a obiettivi di apprendimento circoscritti); dall’altra, desistere dall’impegnarsi a sviluppare competenze cruciali quali quelle  argomentative o di problem solving è una condanna proprio per quelli allievi per cui si desiste: quelli che hanno più difficoltà e che hanno occasione di lavorare su aspetti significativi solo a scuola.L’altra variabile è l’errore: gli obiettivi significativi, proprio per la loro significatività, è naturale che comportino delle difficoltà per gli allievi. È necessario che l’insegnante per primo vinca la paura / il fastidio dell’errore dei propri allievi e che veda l’errore sotto un’altra luce: un elemento imprescindibile di un percorso formativo, da non demonizzare, né da ignorare, ma da valorizzare.A questo proposito, Raffaella Borasi (1996) descrive l’errore come il “trampolino per la scoperta” nel processo di apprendimento matematico, introducendo la metafora del perdersi per mostrare come il peso che attribuiamo all’errore dipenda dalla situazione e dall’obiettivo.Spiega Borasi, se ci perdiamo avendo fretta di arrivare in un certo luogo, il perdersi è particolarmente penalizzante e negativo. Se ci perdiamo tornando a casa dalla nuova sede del la- voro, possiamo essere infastiditi, ma sfruttare la situazione per imparare nuovi percorsi potenzialmente utili per il futuro. Se infine ci perdiamo visitando una città, anche avendo inizialmente una precisa destinazione avremo la possibilità di visitare luoghi affascinanti non previsti nel piano iniziale. Ecco, sarebbe bello che l’apprendimento della matematica non fosse visto come il dover arrivare in un certo luogo a una certa ora, con la paura di far tardi, ma come la visita alla scoperta di una città, senza paura di perdersi / fare errori. D’altra parte, come scrive Rodari:“Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa”.

<ul><li>Borasi, R. (1996). Reconceiving mathematics instruction: A focus on er- rors. Norwood: NJ: Ablex.</li><li>Di Martino, P., Zan, R. (2019). Problemi al centro. Matematica senza paura. Firenze: Giunti Scuola.</li><li>&nbsp;<a data-cke-saved-href="http://www.problemialcentro.it/" href="http://www.problemialcentro.it/">www.problemialcentro.it</a></li><li>Zan, R. (2007). Difficoltà in matematica. Osservare, interpretare, intervenire. Berlino: Springer Verlag.</li></ul>

Contro la paura dell’errore in Matematica

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