Difficoltà nella scrittura, nella gestione dello spazio e del corpo

Come evitare comportamenti provocatori in classe

Chiarimenti sui DSA

Muoviamo i primi passi

Il dettato ortografico

Calcolatrice e altre strategie

Potremmo affermare che il nostro cervello funziona creando storie. Pensiamo ad esempio quando il bambino sperimenta un’emozione rispetto ad uno specifico evento: si è arrabbiato per un presunto sgarbo da parte di un amico, è preoccupato per la verifica dell’ora seguente oppure prova orgoglio per aver risolto correttamente un esercizio molto complesso. In tutti questi casi il suo cervello sta costruendo una storia, che collega alcuni sintomi somatici più o meno definiti (l’aumento del battito cardiaco, il respiro accelerato), gli stimoli esterni o interni sotto forma di parole o immagini (lo scherzo del compagno, i ricordi delle precedenti verifiche) e una serie di pensieri (“sicuramente andrà male, ci saranno esercizi che non riuscirò a svolgere e prenderò un brutto voto”). Le emozioni collegate alle storie Il cervello collega tutti questi elementi in un’unica storia, anche se spesso a livello inconsapevole. “Quando penso alla verifica di domani sento il cuore che batte più forte e lo stomaco contratto, perché mi torna in mente quando all’altra verifica ho preso un brutto voto e sono stato rimproverato. Sicuramente andrà così anche domani!”. La conclusione di questa storia sarà l’emozione esperita consapevolmente: “Sono preoccupato per la verifica!”. I vari elementi acquistano così un significato personale: la tensione addominale diventa il campanello d’allarme che segnala un possibile pericolo futuro, sulla base dell’esperienza passata. Senza un cervello deputato a costruire questa storia, i diversi elementi rimarrebbero tra loro slegati e senza un significato personale: lo stomaco contratto resterebbe un semplice sintomo fisico di malessere, una lamentela generica “mamma, mi fa male la pancia”, una somatizzazione che scomparirebbe nel momento in cui il bambino viene tenuto prudenzialmente a casa, perdendo così il suo significato personale. Le storie per imparare e ricordare La costruzione di storie è fondamentale non solo nel campo delle emozioni ma in qualsiasi altro ambito. Fin dalle mnemotecniche della retorica greca e latina, sappiamo che ricordiamo meglio una serie di elementi tra loro slegati (un elenco di parole, di immagini, di numeri) nel momento in cui li inseriamo all’interno di una storia dal significato complessivo e, magari, anche personale. D’altro canto, fin dai primi anni di vita il bambino viene esposto a storie: i racconti dei nonni o quelli ascoltati al nido, alla scuola dell’infanzia, le storie veicolate dai cartoni animati o da un albo illustrato. E cosa dire dei racconti, più o meno fantasiosi, prodotti dai bambini stessi? Si tratta di storie spesso molto fantasiose (qualche adulto arriverebbe a chiamarle bugie), che servono per esprimere le proprie emozioni, per spiegare i propri comportamenti, anche solo per attirare l’attenzione dell’adulto e dialogare con lui. Le storie come strumento di apprendimento È evidente che il cervello del bambino, prima ancora di imparare con le storie, funziona attraverso la creazione di storie, che svolgono varie funzioni: • aiutano la comprensione e la memorizzazione; • favoriscono il coinvolgimento e la motivazione; • esercitano funzioni cognitive di base; • sollecitano anche funzioni complesse, come la pianificazione o la flessibilità; • promuovono il senso di protagonismo. Nel percorso scolastico, allora, sarebbe importante riconoscere le storie come strumento di apprendimento, evitando la semplice memorizzazione di informazioni slegate tra loro, spersonalizzate, meccaniche. Le potenzialità delle storie valgono per chi apprende, ma anche per chi insegna.&nbsp;

SCOPRI DI PIù SUI LIBRI DI TESTO GIUNTI SCUOLA 2021

Apprendere con le storie

Dove trovi questo contenuto