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Vanessa, 19 anni, si era rivolta allo sportello psicologico di un liceo scientifico, esprimendo il desiderio di iniziare una psicoterapia per &laquo;guarire dal disturbo borderline di personalit&agrave;&raquo;: diagnosi che si era fatta da sola, spulciando su Internet e ritrovandosi nei sintomi l&igrave; elencati.

Vanessa, 19 anni, si era rivolta allo sportello psicologico di un liceo scientifico, esprimendo il desiderio di iniziare una psicoterapia per «guarire dal disturbo borderline di personalità»: diagnosi che si era fatta da sola, spulciando su Internet e ritrovandosi nei sintomi lì elencati.


Lockdown con o senza collaborazione


 La ragazza da subito mi disse di ritrovarsi nella descrizione del disturbo borderline in tutti i suoi aspetti. Si sentiva instabile nelle relazioni interpersonali e anche nella relazione con sé stessa, costantemente terrorizzata dal poter perdere le persone per lei importanti, spesso impulsiva, autopunitiva e rabbiosa

Lockdown con o senza collaborazione
La ragazza da subito mi disse di ritrovarsi nella descrizione del disturbo borderline in tutti i suoi aspetti. Si sentiva instabile nelle relazioni interpersonali e anche nella relazione con sé stessa, costantemente terrorizzata dal poter perdere le persone per lei importanti, spesso impulsiva, autopunitiva e rabbiosa. Ma soprattutto, ciò che più l’aveva colpita nella descrizione dei cosiddetti “border” erano i “sentimenti cronici di vuoto”, perché non avrebbe proprio saputo tratteggiare meglio che cosa avveniva dentro di sé. A volte sentiva la sveglia al mattino come «risuonare e riecheggiare nel nulla», e alzarsi le sembrava una violenza, affrontare la giornata una battaglia. Un abisso la risucchiava, le veniva da piangere e non sentiva di avere riferimenti né dentro, né fuori di sé. Solo qualche insegnante era stato capace di farla balzare entusiasta giù dal letto, per questo l’idea di essere all’ultimo anno di scuola le faceva una grande paura.
La messa alla prova della nostra relazione
A me non premeva fare una diagnosi che confermasse o meno la sua idea. Ciò che mi importava, piuttosto, era il suo dolore davvero grande e inizialmente inaccessibile. Infatti, nei miei confronti manifestava una forte diffidenza e a tratti una franca ostilità. Nei primi mesi metteva in discussione ogni cosa che dicevo. Non andava bene neppure la mia stretta di mano. Quando finiva il tempo del nostro incontro, poi, mi guardava con fare aggressivo, e una volta mi disse: «Facile fare la carina per un’oretta». A volte saltava l’appuntamento, o arrivava in ritardo, o mi diceva che avrebbe smesso il percorso perché tanto era inutile. Mi sono sentita spesso impotente, ho dovuto fare molte supervisioni per riuscire a tollerare sia quella frustrazione, sia il mio senso di inadeguatezza. Ma sono rimasta lì, perché costruirsi un nido richiede tempo, soprattutto quando il nido nel quale si è cresciuti non è stato solido. Sentivo di dovermi fare studiare per tutto il tempo per lei necessario a fidarsi: dovevo muovermi con cautela e pazienza, facendole arrivare che ero lì, che poteva prendere le misure, avvicinarsi e allontanarsi, mettermi alla prova, sperimentare di che pasta fossi fatta. Anzi, sapevo che il mio essere lì per lei, cosa che poteva sembrare scontata, sarebbe probabilmente stato ciò che l’avrebbe aiutata di più.


Vanessa e il bisogno di un punto di riferimento

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