Virtù dell’errore

Le tecnologie peggiorano l’apprendimento? Che cosa dice veramente il rapporto OCSE

Bambini e sessualità, un avvicinamento troppo precoce?

Impariamo a rilassarci

Tutti insieme nel gruppo classe

Alleniamo la concentrazione

Ogni volta la solita dinamica: Anna torna a casa entusiasta, con la voglia di raccontare che cosa le è accaduto (ha conosciuto qualcuno che forse le piace, ha vinto la partita di calcetto, ha scritto un racconto dell’orrore...) e sistematicamente si rende conto che non interessa a nessuno. La mamma annuisce senza interrompere ciò che stava facendo, il padre dice “bene!” e va nell’altra stanza, la sorella continua a spippolare il cellulare e appena può parla di sé («quando ho conosciuto Giovanni pensa che neanche mi piaceva», «è da anni che non faccio una partita a calcetto», «a me piacciono i racconti horror di Poe» ...). Mi dice che è un grande classico, qualcosa che è sempre successo, esattamente ciò che si aspetta tutte le volte che apre bocca: «Eppure ci sto sempre male. Sempre. Come se non imparassi mai. E questo mi fa arrabbiare moltissimo». Una protettiva cecitàMolti si ritroveranno nel racconto di Anna. Proprio da quando è iniziata la nostra adolescenza ci siamo progressivamente resi conto che alcune parti di noi più o meno grandi e importanti sono disconosciute dai nostri familiari. Non le vedono, anche se ci sbracciamo, anche se gliele sbandieriamo davanti in mille maniere.&nbsp; Ma perché non le vedono? Che ci vorrà mai, viene da chiedersi? Se le vedessero, forse, si metterebbero troppo in discussione. Nel caso di Anna, per esempio, l’entusiasmo è un sentimento poco accettabile per i suoi genitori che hanno vissuto di sacrifici e sono stati educati a suon di “prima il dovere e poi il piacere”. Forse accoglierlo significherebbe, per loro, mettere in discussione come hanno condotto la loro vita fino a quel momento. Molto meglio fare finta che non esista.Anna si è accorta che se arriva a casa e dice “sto male, ho bisogno di aiuto” sono tutti pronti ad ascoltarla. Il dolore, in quella casa, è permesso, ma l’entusiasmo no. Infatti, oggi Anna non si stupisce che tutti parlino di lei da piccola come di una bambina problematica: forse avere problemi era il modo più semplice per ottenere ascolto. Ma adesso non le va più di costruirsi problemi, vorrebbe viversi il suo entusiasmo e condividerlo. Solo che ogni volta si accorge che non riesce a farlo. E ogni volta ci rimane male. È il nostro bambino interiore a soffrireLa ferita che si riapre viene da molto lontano, e riguarda il bambino che abbiamo dentro di noi. Quel bambino che, per esistere, ha avuto bisogno dello sguardo delle sue figure di riferimento, e del loro riconoscimento. Il riconoscimento non è l’approvazione: sarebbe impossibile e anche non auspicabile che un genitore approvasse tutto ciò che fa un bambino. I “no” sono fondamentali. Ma nel dire un “no” il genitore di fatto sta vedendo il suo bambino e gli sta indicando ciò che crede sia meglio per lui. Non lo sta disconoscendo. La situazione di Anna, e le situazioni che molti di noi avranno in mente, sono diverse: il genitore non vede, nega l’esistenza di quella parte (nel caso di Anna non è che l’entusiasmo viene rimproverato, esso non viene semplicemente preso in considerazione), e questo fa male quanto un’amputazione: la ferita che ogni volta si fa sentire deriva da lì. Vale davvero la pena arrabbiarsi con se stessi? Se ci trovassimo davanti a un bambino che piange perché ha paura di essere invisibile, non lo consoleremmo? E allora perché non fare così anche con il nostro bambino interiore? La nostra parte adulta - che inizia a formarsi e crescere durante l’adolescenza - può fare quello che a volte non hanno saputo/potuto fare i nostri familiari. Può ascoltare quel bambino attentamente. Può dirgli che comprende molto bene perché si sente ancora ferito. Può prenderlo per mano e dargli, oggi, quel riconoscimento che non ha avuto. Può portarlo davanti a persone che invece lo vedono e accolgono nella sua interezza. Può spiegargli che i suoi genitori, che forse vede ancora come due divinità, sono in realtà esseri umani pieni di limiti come lo siamo tutti. E che forse adesso non è più il loro sguardo a dover determinare o meno la sua esistenza, perché ci pensiamo noi.

"Perché continuo a farmi ferire dai miei familiari?"