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La scuola inclusiva, un secolo fa

Alfabetieri del mondo: seconda puntata

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Ripensiamo l'accoglienza

Muoviamo i primi passi

Il dettato ortografico

Nella sezione omogenea di quattro anni ci sono ventuno bambini: una sola di questi ha origini italiane da parte della famiglia paterna, tutti gli altri, pur essendo nati in Italia, ad eccezione di G. che è arrivato dal Ghana, provengono dall’est europeo o dal continente asiatico e da quello africano.La frequenza in questa sezione è inoltre piuttosto discontinua. Ciò condiziona fortemente l’ambito della didattica perché difficilmente si riesce a portare avanti un progetto di ampio respiro, eppure i bambini hanno un grande bisogno di fare, di costruire, di sporcarsi: soprattutto hanno bisogno di dire.Dire in tutte le sue forme, dal nominare al raccontare, tirare fuori ciò che si ha dentro utilizzando le parole. Perché con gli adulti questi bimbi parlano poco, quasi solo se è indispensabile, quando hanno bisogno di aiuto e anche in quel caso preferiscono mostrare, attraverso il gesto, un bottone che non si allaccia o l’offesa ricevuta da un amico. Molti di loro hanno poche, forse pochissime parole in italiano e hanno pudore a utilizzarle. Ma quando giocano tra loro, quando sono liberi di scorrazzare in giardino, le parole in italiano ci sono. Arrivano addirittura le frasi.Il silent book per suscitare raccontiCome insegnante, la frammentarietà del loro tempo di frequenza a scuola, mi mette alla prova e mi costringe a pensare a qualcosa di diverso da proporre, ad attività che abbiano un senso, ma che possano fiorire e terminare nel giro di una mattina. Decido di puntare sulla lettura di un silent book. Le immagini fortemente evocative presenti nei libri senza parole mostrano in modo chiaro almeno uno dei possibili sentieri della storia senza che io debba leggere più e più volte ad alta voce perché sia chiara la trama. Nella seconda fase del lavoro, per spingerli a raccontarmi la storia (che narra di una bambina, vestita di rosso, che tornando il pomeriggio da scuola si imbatte in un lupacchiotto in mezzo ad una bufera di neve) decido di “intervistarli” singolarmente, mentre li sprono a disegnarne qualche particolare.L’importanza del racconto individualeL’attività verbale individuale non è il modo più consueto di procedere all’infanzia, dove al massimo viene portato avanti il lavoro in piccolo gruppo per favorire la co-costruzione e la condivisione della conoscenza, ma credo che sia ugualmente importante, in questa fase della loro esperienza, rispettare la loro timidezza e il non sentirsi del tutto sicuri dei propri strumenti. Infatti, presi da soli, alcuni si lasciano andare alla lettura dei non lettori e sfogliando le pagine illustrate cominciano a dire…Quello che mi sorprende di più è la diversità degli stili nel raccontare.Sensazionale lo stile telegrafico di A. che, pur con qualche imprecisione, avrebbe una buona capacità di comunicare in lingua italiana, ma per la fretta di andare a giocare dice semplicemente: “parla di cucciolo e della mamma sua: au au au”. Le produzioni di I. e di I. che provengono da luoghi molto diversi e sono agli antipodi su quasi tutto, danno vita a due racconti molto simili dove un linguaggio scarno, meno che essenziale, affidato all’uso di espressioni olofrastiche risulta potente, quasi evocativo:I.: “La bimba e il lupo piccolo. Il lupo grande-mamma. Guarda papà, guarda è piccola bimba. C’è cane-bimba-scuola-lupo piccolo e grande mamma”.I.: “Lupo-foresta-bambina. Lupo così: auuuuuuu. Lupo nero e bianco. Papà in foresta. Mamma, papà e poi piccolo foresta”.Le parole dell’adulto sono l’impalcatura necessariaA. è il bambino maggiormente dotato linguisticamente di questa sezione. In moto perpetuo e apparentemente sempre distratto, in realtà è un grande appassionato di storie. In questo caso se ne inventa una tutta sua facendo ricorso a parole che descrivono stati fisici ed emozioni: “i lupi erano stanchi”. “La bambina diventava triste”. “Il procione era aggressivo”. L’uso di un verbo difficile come “si intrufola” e della frase “il piccolo rimane indietro” mi fanno notare però quanto, al di là della storia che ho inventato, sono le mie parole, non studiate e non scritte, ma uscite di getto mentre le immagini scorrevano che hanno condizionato la produzione di A. soprattutto, ma in fondo anche degli altri, e a come le mie parole costituiscano per loro un’impalcatura ancora necessaria.

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