Virtù dell’errore

Le tecnologie peggiorano l’apprendimento? Che cosa dice veramente il rapporto OCSE

Bambini e sessualità, un avvicinamento troppo precoce?

Impariamo a rilassarci

Tutti insieme nel gruppo classe

Alleniamo la concentrazione

Gli atteggiamenti propositivi aiutano a contrastare i comportamenti che esprimono demotivazione

Frasi efficaci

È possibile distinguere un livello molto semplice e “superficiale” del tipo “non so fare” (non posso, non riesco) da altri decisamente più radicati riguardanti il “non valgo” (autostima, esperienza di accettazione) e il “non ha senso”

È possibile distinguere un livello molto semplice e “superficiale” del tipo “non so fare” (non posso, non riesco) da altri decisamente più radicati riguardanti il “non valgo” (autostima, esperienza di accettazione) e il “non ha senso” (percezione di valore).La piramide illustrata nella Figura 1 (tratta da Moè, 2021a) evidenzia le strutture alla base, da rafforzare necessariamente come importanti fondamenta dell’apparato motivazionale, da quelle al vertice, utili per giungere a una completezza del sistema motivazionale.Mostra inoltre quali domande porsi per sondare ciascun livello. Pertanto, volendo capire “dove sta il problema” si potrebbe coinvolgere la classe in attività volte a fare emergere risposte a tali importanti quesiti. Per un’applicazione concreta si veda la Scheda 1 di “Strumenti e percorsi” alla fine del presente articolo.

A un secondo livello risulterebbe funzionale il comunicare apertura, anziché giudizio, con ciò favorendo un atteggiamento simile negli studenti e nelle studentesse. Concretamente questo potrebbe avvenire con reazioni del tipo «Mi sono accorto/a che… Che cosa succede?», che riportano il proprio sentimento e ciò che si è osservato e avviano a una risposta. Ovviamente, la risposta potrebbe non arrivare. In tal caso si tratterebbe di proporre delle attività per elicitarla e stimolarla. Si veda, per esempio, la Scheda 3. Infine, si tratterebbe di riportare sul piano dell’esperienza di apprendere piuttosto che sull’effettivo apprendimento tout court. Ciò comporterebbe una maggiore focalizzazione sui vissuti e le auto-percezioni durante lo studio, lo svolgimento di esercizi o attività e implicherebbe un’attenzione specifica sulle emozioni. Fra queste si tratterebbe di favorire il piacere di apprendere, ma anche di ridurre eventuali espressioni di ansia o di noia. Per un possibile percorso operativo si veda la Scheda 4. Ulteriori indicazioni puntuali su come sostenere la motivazione si trovano anche in Moè (2019; 2021b).

È possibile distinguere un livello molto semplice e “superficiale” del tipo “non so fare” (non posso, non riesco) da altri decisamente più radicati riguardanti il “non valgo” (autostima, esperienza di accettazione) e il “non ha senso” (percezione di valore). La piramide illustrata nella Figura 1 (tratta da Moè, 2021a) evidenzia le strutture alla base, da rafforzare necessariamente come importanti fondamenta dell’apparato motivazionale, da quelle al vertice, utili per giungere a una completezza del sistema motivazionale. Mostra inoltre quali domande porsi per sondare ciascun livello. Pertanto, volendo capire “dove sta il problema” si potrebbe coinvolgere la classe in attività volte a fare emergere risposte a tali importanti quesiti. Per un’applicazione concreta si veda la Scheda 1 di “Strumenti e percorsi” alla fine del presente articolo.

Infine, un terzo problema potrebbe riguardare il senso e il significato: «Perché studiare queste cose?»; «Per quale ragione dovrei svolgere tutti questi esercizi?». Si tratta del secondo pilastro su cui regge la motivazione, ovvero il “dare valore” (il primo è “percepirsi capaci”; si veda Moè, 2020). Come è possibile osservare nella Figura 2, possono sorreggersi in un ambiente favorevole che esprime apertura, attenzione, accettazione, accoglienza e fa sentire capaci di cimentarsi in ambiti e attività significativi per sé.

Di fronte a studenti e studentesse poco motivati ci si chiede talvolta come reagire, che cosa dire o fare. Risulta forse meno immediato il quesito “Perché”, ovvero per quali ragioni sono demotivati/e e in che direzione orientare l’eventuale supporto. È evidente, anzitutto, che non esiste un singolo problema di de-motivazione o di caduta motivazionale, ma diverse tipologie e soprattutto vari livelli.

Di fronte a studenti e studentesse poco motivati ci si chiede talvolta come reagire, che cosa dire o fare. Risulta forse meno immediato il quesito “Perché”, ovvero per quali ragioni sono demotivati/e e in che direzione orientare l’eventuale supporto.È evidente, anzitutto, che non esiste un singolo problema di de-motivazione o di caduta motivazionale, ma diverse tipologie e soprattutto vari livelli.

Premesso che non esistono le “parole giuste”, ma che ogni evento (de)motivazionale è unico, può essere utile piuttosto un’indicazione di linee-guida, ovvero: che cosa rende un messaggio (de)motivante. Possiamo orientarci con la Tabella 1, che illustra le due polarità e possibili espressioni verbali in frequenti situazioni. Come si può osservare, vi possono essere rea­zioni più coercitive e controllanti, molto legate ai risultati o ai comportamenti, distinte da altre più prossime a come l’altro si sente e vede la situazione. Un feedback efficace, secondo la teoria dell’autodeterminazione (Ryan, Deci, 2017) dovrebbe infatti consentire l’espressione emotiva, rispettare i tempi dello/a studente/essa e il suo punto di vista, favorire la percezione di competenza, guidare all’autonomia, stimolare la ricerca di significato e non risultare impositivo, ma aiutare a fare intravvedere opportunità, scenari, possibilità (Reeve, 2009). Inoltre i feedback risulterebbero più efficaci se contingenti (dati in stretta prossimità dell’evento), specifici («Ho visto che…») e credibili (non esagerati rispetto all’effettiva situazione).

Le parole contano, ma hanno grande importanza anche gli atteggiamenti, ovvero tutte le espressioni non verbali o para-verbali che accompagnano le reazioni a comportamenti che esprimono demotivazione. A un primo livello l’insegnante potrebbe lui/lei per primo rivalutare il proprio vissuto emotivo anziché sopprimerlo. Per esempio, invece di dirsi «Va bene così» o «Sono sfortunato: mi è capitata una classe poco impegnata», potrebbe focalizzarsi su aspetti che funzionano e – forte di questi – cercare di capire come migliorare la situazione. Ove possibile potrebbe assumere un atteggiamento e successivo comportamento “interventista” del tipo «C’è qualcosa che si può fare: facciamolo», che andrebbe trasmesso alla classe. Contemporaneamente (o in alternativa, allorché la situazione oggettiva fosse poco modificabile, almeno nell’immediato) potrebbe cambiare il significato: da minaccia a sfida, da senso di perdita ad opportunità…

<ul><li>Bandura A. (2000), Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Erickson, Trento. </li><li>Dweck C.S. (2000), Teorie del sé. Intelligenza, motivazione, personalità e sviluppo, Erickson, Trento. </li><li>Gaspard H., Dicke A.-L., Flunger B., Brisson B.M., Häfner I., Nagengast B., Trautwein U. (2015), «Fostering adolescents’ value beliefs for mathematics with a relevance intervention in the classroom», Developmental Psychology, 51(9), 1226-1240. doi:10.1037/dev0000028 </li><li>Gross J.J. (2015), «Emotion regulation: Current status and future prospects», Psychological Inquiry, 26(1), 1-26. https://doi.org/10.1080/1047840X.2014.940781 </li><li>Higgins E.T., Rholes W.S. (1978), «“Saying is believing”: Effects of message modification on memory and liking for the person described», Journal of Experimental Social Psychology, 14(4), 363-378. https://doi.org/10.1016/0022-1031(78)90032-X </li><li>Lin-Siegler X., Ahn J.N., Chen J., Fang F.F.A., Luna-Lucero M. (2016), «Even Einstein struggled: Effects of learning about great scientists’ struggles on high school students’ motivation to learn science», Journal of Educational Psychology, 108(3), 314-328. http://dx.doi.org/10.1037/edu0000092 </li><li>Moè A. (2014), Autostima. Che cosa è, come si coltiva, Laterza, Roma-Bari. </li><li>Moè A. (2019), Il piacere di imparare e di insegnare. Pensieri, ambienti e persone motivanti, Mondadori, Milano. </li><li>Moè A. (2020), La motivazione. Teorie e processi, il Mulino, Bologna. </li><li>Moè A. (2021a), Motivarsi. Tre buone ragioni e qualche strategia, il Mulino (Universal Paperbacks), Bologna. </li><li>Moè A. (2021b), L’ABC per motivare. Strumenti e metodi per favorire la voglia di imparare, Mondadori, Milano. </li><li>Reeve J. (2009), «Why teachers adopt a controlling motivating style toward students and how they can become more autonomy supportive», Educational Psychologist, 44(3), 159-175. doi:10.1080/00461520903028990 </li><li>Roth G., Vansteenkiste M., Ryan R.M. (2019), «Integrative emotion regulation: Process and development from a self-determination theory perspective», Development and Psychopathology, 31(3), 945-956. doi:10.1017/S0954579419000403 </li><li>Ryan R.M., Deci E.L. (2017), Self-determination theory: Basic psychological needs in motivation, development, and wellness, Guilford Publications, New York. </li></ul>

Atteggiamenti propositivi

Qualche problema motivazionale tipico

Supponiamo di voler costruire una cassettina di “pronto soccorso” per affrontare i succitati problemi motivazionali o altri che emergessero. Che cosa non far mancare? Volendo stilare una lista, è possibile metterci gli attrezzi seguenti. <ol><li style="text-align: justify;">Storie. Leggere storie (o vedere brevi filmati) di personaggi con cui il/la motivando/a può identificarsi: racconti di fallimenti e riprese, di dubbi o consolidamento di convinzioni, di scoperta di valori, di isolamento e poi ripresa di socializzazione… a seconda delle necessità, per esempio per promuovere una convinzione incrementale (Lin-Siegler et al., 2016) o l’attribuzione di valore (Gaspard et al., 2015). </li><li style="text-align: justify;">Racconti. Il/la docente (ma anche un altro adulto significativo) potrebbe narrare la sua storia: «Anch’io quando frequentavo…», o invitare gli/le studenti/esse a raccontare la loro e scrivendo in modo anonimo in fogliettini cartacei o elettronici. Potrebbe risultare più funzionale invitare a farlo in terza persona, per rendere più liberi nel racconto. </li><li style="text-align: justify;">Esercizi di scrittura. Possono essere declinati in: «Scrivi una lettera a un amico che… è sfiduciato per il suo percorso scolastico… non riesce a farsi piacere la materia… si scoraggia facilmente…». È efficace, in quanto sviluppa la tecnica del saying is believing (Higgins, Rholes, 1978): nel dire (meglio ancora se nello scrivere) ci si convince meglio dei propri pensieri e in ogni caso si elaborano idee e si fissano auto-percezioni, auspicabilmente anche auto-valorizzazioni. Per i più piccoli potrebbe essere declinata in: «Caio dice che… Che cosa risponderesti?», con la richiesta di piccole frasi. </li><li style="text-align: justify;">Attività di problem-solving e comunque di sprono, per esempio “il magico numero tre”. A volte i/le ragazzi/e (ma non solo) si arenano dicendo «Non so fare». Questa espressione spesso emerge prima di avere tentato il compito, portando all’evitamento. Risulterebbe invece funzionale invitare a provare una volta (non importa l’esito, né il tempo impiegato). Se le cose non andassero per il verso giusto, rimarrebbero ancora due possibilità. Se invece si riuscisse al primo tentativo, la percezione di competenza risulterebbe immediatamente rafforzata. </li><li style="text-align: justify;">Coinvolgimento. Che cosa accade davvero di fronte a un insuccesso o a un compito valutato come meno significativo? Si tratterebbe di simulare difficoltà, problematicità e osservare le reazioni emotive e comportamentali. Tale esercizio sarebbe utile anche a livello preventivo e con studenti e studentesse che magari non presentano (ancora) problemi di (de)motivazione. Si veda per esempio la Scheda 2. </li><li style="text-align: justify;">Diario «La mia motivazione» o quaderno «Mi sento motivato quando…»; «Racconta un episodio in cui sei riuscito/a motivare qualcuno…/ad auto-motivarti…». Per i più giovani può essere strutturato in “pensierini motivanti”: «Se un esercizio non mi viene mi dico…». Volendo tali espressioni possono poi essere scritte su fogliettini anonimi da inserire in una cassettina. L’insegnante potrà poi estrarli e avviare delle riflessioni condivise. Per esempio un/una bambino/a può avere scritto «Mi sento un incapace». L’insegnante potrebbe esordire con «Che cosa direste a questo/a compagno/a?» e guidare poi la discussione, magari riportando alla LIM le espressioni di incoraggiamento e i suggerimenti. </li><li style="text-align: justify;">Che rabbia! Che ansia! Che noia! Si tratterebbe di invitare il più spesso possibile a esprimere le emozioni. State svolgendo degli esercizi. Come vi sentite? Abbiamo visto l’argomento x: che emozioni provate? Non conta, a questo primo livello, se è piaciuto o ha annoiato. È importante, piuttosto, avviare percorsi di regolazione emotiva (Gross, 2015; Roth et al., 2019). Si tratterebbe di abituare ad accogliere le personali emozioni per poi eventualmente trasformarle, con ciò dando uno slancio ai processi motivazionali. Se riconosco di provare rabbia voglio andare oltre l’ostacolo, se capisco che provo ansia significa che ci tengo a riuscire, se mi annoio devo attrezzarmi a trovare qualcosa di più sfidante e stimolante nel compito… </li></ol>

La cassetta degli attrezzi

Quali possono essere alcuni tipici problemi motivazionali con cui molto spesso gli/le insegnanti hanno a che fare? Un primo problema riguarda i blocchi: «Non mi viene», «Non capisco», «Non fa per me», «Non migliorerò», che sottendono dei taciti messaggi «Mi piacerebbe riuscire», «Ho paura di sbagliare», «Vorrei potercela fare anch’io». In sintesi, esprimono una paura che è di per sé una forza de-motivante. Per aiutare in questi casi si tratterebbe di “trasformare la paura in speranza”, ovvero di: <ol><li style="text-align: justify;">facilitare l’accettazione dell’espressione di timore mostrando vicinanza; </li><li style="text-align: justify;">cogliere il punto di vista di chi è nell’impasse; </li><li style="text-align: justify;">accompagnare nello stemperare la paura in emozioni più propositive, per esempio il senso di sfida. </li></ol>Il processo risulterebbe facilitato allorché gli obiettivi fossero orientati a padroneggiare il compito, anziché a mostrarsi capaci, ovvero se il focus fosse su chi apprende piuttosto che sul risultato (Dweck, 2000). Espressioni possibili potrebbero essere: «È impegnativo, ma ce la puoi fare», che da eterodirette potrebbero poi diventare autodirette: «È un’opportunità, non una minaccia». Un secondo problema potrebbe riguardare le convinzioni. In apparenza simili ai blocchi, per quanto riguarda l’espressione comportamentale, sono invece più stabili e durature. Possono riferirsi al compito o a sé e riguardare nello specifico l’autoefficacia (percezione di potercela fare) e l’autostima (percezione di valere; Bandura, 2000; Moè, 2014). Rispetto al caso precedente, un eventuale intervento richiederebbe un supporto maggiore e più esteso nel tempo, volto a cogliere i fattori che portano a mantenere tali convinzioni e a rimodulare la situazione. Per esempio si potrebbe scoprire che vi è la paura del giudizio o il timore di sentirsi diversi o esclusi. È evidente che si tratterebbe preliminarmente di intervenire nel contesto, affinché risulti più accettante e inclusivo, prima di avviare un percorso volto a favorire la motivazione del singolo.

Che dire? Che fare?

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