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L'educazione "affare" comune

Beck elabora un lessico per orientarsi nella società del rischio e alla voce “comunità del rischio” afferma: “nel rischio noi ci troviamo legati agli altri, al di là delle frontiere, delle religioni, delle culture. In un modo o nell’altro, il rischio produce una certa comunità di destino e, forse, anche uno spazio pubblico mondiale”. Conclude Beck: “dobbiamo accettare l’insicurezza come un elemento della nostra libertà. Può sembrare paradossale, ma questa è anche una forma di democratizzazione: è la scelta, continuamente rinnovata, tra diverse opzioni possibili. Il cambiamento nasce da questa scelta”. Applicato alla realtà dei nostri servizi questo monito di Beck si traduce nella necessità di fare leva sulla forza della nostra comunità educativa che esiste, vive e può continuare, seppure con modalità più soggette alla sicurezza imposta giustamente dalle nuove prescrizioni sanitarie, ad esprimere la sua forza. Il vero rischio lo corrono gli adulti, ossia il personale dei servizi e i genitori: a entrambi è chiesto un cambio di paradigma ossia di esercitare i primi la responsabilità della cura in una cornice più restrittiva, adempiendo a repertori di relazione con i bambini mediati dalle strumentazioni e dalle diverse modalità organizzative che richiedono pazienza e versatilità creativa; i secondi perché devono ridefinire il patto educativo con il personale in un’ottica di reciproca e rinnovata fiducia. Insomma, una sfida a cui siamo chiamati e dalla quale ci auguriamo di uscirne con un’idea di comunità educante più viva aperta a una cittadinanza attiva, in grado di trasformare questa esperienza in un’occasione per rinsaldare legami sociali a cui i servizi educativi prestano, per loro intrinseca natura, sempre attenzione.

La pratica della cittadinanza

E ora che comunità educante e cittadinanza attiva appaiono un ossimoro, ossia si annullano reciprocamente nel loro significato intrinseco, in quanto incompatibili perché resi impraticabili dall’emergenza sanitaria legata al Coronavirus, quale riflessione siamo indotti a compiere? Dalle torri gemelle in poi le minacce concrete alla nostra dimensione di vita quotidiana, soprattutto nei luoghi in cui la partecipazione attiva, l’aggregazione sociale si rendono più tangibili ed efficaci, sono divenute talmente contingenti da farci convivere con il rischio quotidiano. Un sociologo Ulrich Beck (2020) ha addirittura codificato una definizione attualissima della nostra società, che considera società del rischio per definizione, ossia “risikogesellschat”, e sostiene che, vivendo in una società perennemente esposta al rischio, il prenderne atto consente di assumere una visione tale per cui si può anche progressivamente imparare ad anticipare il rischio, in modo tale da non trasformare le emergenze in panico sociale e le paure in catastrofi. Addirittura, Beck associa al rischio una nuova utopia perché indurrebbe a un cambiamento positivo nella modalità e nelle pratiche di decisione strategica.

La costruzione di una comunità

Tra le differenti ricadute che il Coronavirus ci riserva, una riguarda proprio gli effetti sulla natura profonda della missione dei servizi 0/6, ossia quella di essere luoghi di accoglienza non solo dei bambini, ma anche delle reti familiari in cui essi vivono ed esperiscono contatti, prossimità, vincoli, rapporti. La pedagogia della relazione è la matrice fondativa dei servizi per la prima infanzia, in quanto è attraverso la relazione, il contatto fisico, lo sguardo, la parola, l’ascolto, la condivisione e il contraddittorio che si alimenta e prende corpo una comunità la cui aspirazione non è solo correlata al bisogno di fruire di un servizio, ma anche quella di trovare in esso la motivazione e la spinta generativa per ritrovarsi in un comune sentire.

Ora è ancora possibile?

Essere comunità educante nella società del rischio

I servizi educativi 0/6 lavorando in chiave plurale sono anche stati testimoni in questi cinquanta anni della crisi del modello tradizionale della cittadinanza democratica che, come ci ricorda Moro (2019), si è resa più tangibile a partire dagli anni ’90 “a seguito di fenomeni come l’immigrazione, la moltiplicazione delle identità collettive, la crisi del welfare state, la crescente sfiducia e nelle classi dirigenti politiche che hanno nello stesso tempo minato i pilastri su cui esso si reggeva e innescato fenomeni evolutivi inediti e non previsti.” E pur tuttavia al loro interno, lavorando sul principio della comunità educante, hanno anche favorito lo sviluppo di una pratica di cittadinanza, perché molte sono state le autonome forme di azione collettiva che hanno dato vigore e favorito attività di interesse generale. Penso, per esempio, alla presa in cura di beni&nbsp;comuni come la ristrutturazione di arredi, la costruzione di materiale didattico e strutture da utilizzare nei servizi, la manutenzione di aree verdi del nido, la costruzione di orti ecc. Si è trattato di concrete esperienze di impegno civico o di cittadinanza democratica che hanno voluto sfidare un nuovo modo di intendere la relazione tra cittadini e istituzioni, risignificando e sollecitando anche la politica stessa.

<ul><li>Beck, U. (2020). Vivere nella società del rischio: la lezione di Ulrich Beck. Roma: Carocci. </li><li>Moro, G. (2019). Che cos’è la cittadinanza attiva. Bologna: Il Mulino</li></ul>

Lavoriamo sulle relazioni per star bene insieme.

La comunità educante è quindi un sistema complesso che è continuamente sottoposto a cambiamento, pur lavorando sempre al mantenimento dell’organizzazione che rende efficace e pertinente il suo compito. Essa ha però senso se in questa dinamicità non si ripiega in se stessa, ma mantiene uno sguardo aperto oltre il confine; dal confine individuale a quello collettivo per favorire ciò che Dewey dichiarava come la necessità di “mettersi dal punto di vista più ampio, quello sociale” puntando a trasformare i luoghi educativi in contesti in cui prende vita un’embrionale comunità aperta al sapere, alla ricerca antropologica, fino ad abbracciare il mondo e ad attivare uno spirito di appartenenza tale da sentirsi cittadini attivi nei luoghi in cui si vive. Ciò che caratterizza i nostri servizi educativi è che le esperienze più qualificate, ovvero quelle in cui si sono raggiunti i livelli più alti di elaborazione pedagogica e di conseguente progettazione educativa, sono quelle in cui si è realizzata una sintesi tra l’istanza pedagogica dell’educazione dell’individuo e l’istanza pedagogica della costruzione della comunità fondata sui rapporti autentici.

Si tratta di vivere questo momento particolare come un’opportunità nella quale rafforzare l’importanza dello stare insieme.

Questo senso di appartenenza a un luogo vivo, creativo, orientato alla comune volontà di mettere al centro del proprio agire il bambino e di fare di questo gesto un atto collettivo e non solo individuale, richiama con forza l’idea che l’educazione sia un “affare” di molti, che riguardi cioè un’intera comunità, la quale si rende educante attraverso un atto di responsabilità che assume nella cittadinanza attiva, la cifra della propria etica civica. E non sfugge a tutti noi il fatto che una comunità per essere educante deve essere orientata al cambiamento: la relazione che si sviluppa in essa è circolare e ricorsiva, ossia tutti i soggetti sono esposti al flusso dello scambio linguistico e meta-comunicativo, e di tale scambio, dove anche i corpi giocano la loro parte di comunicazione, la comunità educativa si prende cura per mantenersi e autorigenerarsi. È la stessa struttura che regge l’impianto della relazione adulto-bambino o di quella che riguarda i gruppi di pari, ossia in qualche modo tutte le dimensioni, più o meno intime, in cui la relazione si offre e si esperisce. Bateson stesso ci ha insegnato che l’apprendimento serve innanzitutto per “imparare” e imparare serve per evolvere, cioè per accrescere le opportunità di esperienze così vitali alla definizione della propria identità individuale e sociale. Tutto ciò che dà vita a un’azione educativa, contemporaneamente genera cambiamento.

Cittadinanza, star bene insieme al nido

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