Grammatica nella scuola primaria - Intervista a Maria G. Lo Duca

Grammatica italiana nella scuola primaria: qual è lo stato dell’arte? Come e perché insegnarla? Ne abbiamo parlato con Maria G. Lo Duca, docente di Lingua italiana all'Università di Padova

di Emilia Passaponti26 aprile 201210 minuti di lettura
Grammatica nella scuola primaria - Intervista a Maria G. Lo Duca | Giunti Scuola
 
 
 
Grammatica italiana nella scuola primaria: qual è lo stato dell’arte? Come e perché insegnarla? Ne abbiamo parlato con Maria G. Lo Duca, docente di Lingua italiana all'Università di Padova e autrice di una serie di volumi ( Esperimenti grammaticali , Lingua italiana ed educazione linguistica , Sillabo di italiano L2 , tutti editi da Carocci) in cui affronta la questione da diversi punti di vista. La prof. lo Duca collabora da anni con “La Vita Scolastica ”, rivista per la quale ha scritto una nutrita serie di articoli dedicati all'argomento in esame.
 
Uno dei ritornelli fissi di insegnanti, genitori, giornalisti , maître à penser è che i giovani e, a cascata, i ragazzi e i bambini non conoscono più la grammatica italiana. È proprio così?

Sì, temo sia proprio così. Se guardiamo alle prestazioni grammaticali dei giovani in entrata nelle facoltà umanistiche - e in proposito sono state fatte numerose ricerche in vari atenei italiani - possiamo a buon diritto parlare di una sorta di analfabetismo grammaticale diffuso , con rare eccezioni legate, ma non sempre, al percorso scolastico seguito. Diciamo, semplificando molto, che coloro che hanno alle spalle un liceo classico, rispondono mediamente meglio di coloro che provengono da un liceo linguistico, o da una scuola a indirizzo tecnico o economico. Ma si tratta di oscillazioni che non riguardano la totalità dei soggetti, e il quadro complessivo è desolante.

Io stessa, che insegno da anni una materia chiamata "Lingua italiana" in una facoltà di Lettere, mi scontro quotidianamente col fatto che persino certi termini elementari della disciplina grammaticale - quali ad esempio "soggetto" o "verbo riflessivo" o "pronome personale" - rimandano troppo spesso a concetti confusi, poco e male appresi e dunque spesso equivocati, o semplicemente dimenticati. In questa situazione il ruolo dell’università, che forma i futuri insegnanti di italiano, diventa centrale.

Solo dando alle future generazioni una formazione grammaticale solida e aggiornata si può sperare di incidere su questa situazione, e cambiarla in meglio. Ma rimane il problema, e la fatica, di dovere troppo spesso ripartire da zero.

 

Secondo lei, quali sono le ragioni di questo fallimento?

Me lo sono chiesta spesso, e per capire di più e meglio ho letto e riletto i documenti ministeriali che fissano gli obiettivi di insegnamento nei diversi cicli scolari in fatto di grammatica italiana, o riflessione sulla lingua. Contemporaneamente ho condotto con una serie di collaboratori - docenti delle scuole spesso miei ex studenti, laureandi particolarmente motivati - una serie di ricerche sul campo, vale a dire nelle aule scolastiche, conversando di temi grammaticali con studenti piccoli e grandi, o spulciando nei libri di testo in uso nelle scuole, o nei quaderni di bambini ed adolescenti, nei loro esercizi di grammatica.

Bene, ho tratto da queste esplorazioni la convinzione che sono soprattutto due gli errori che si annidano nell’insegnamento grammaticale , e che a mio parere spiegano quel fallimento.

 

Il primo errore riguarda la programmazione, vale a dire la messa in sequenza dei contenuti grammaticali così come prevista dai documenti ministeriali, e come usualmente realizzata nella pratica didattica. Il percorso previsto va, lo sappiamo tutti, dalle parole (le cosiddette ‘parti del discorso’), al cui riconoscimento è dedicata la cosiddetta ‘analisi grammaticale’, alla frase semplice (‘analisi logica’), alla frase complessa (‘analisi del periodo’).

C’è dietro questa scelta l’idea che riflettere sugli elementi linguistici autonomi più piccoli (le parole, appunto) sia più facile, che la materia sia più immediatamente abbordabile e quindi proponibile fin dalla scuola primaria. Ma siamo davvero sicuri che sia così? Qui ci sarebbe un lungo ragionamento da fare, ma volendo sintetizzare al massimo, dirò che molte esperienze innovative condotte in questi ultimi anni ci dicono che ragionare sulla "frase" sia più naturale e più immediatamente intuitivo e interessante per un bambino.

Le "parole", da sole, sono elementi ancora troppo "astratti" , specie nel caso, non infrequente, in cui non hanno significato autonomo: penso soprattutto a certe categorie - gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni - il cui ruolo è non tanto veicolare significati autonomi, quanto specificare alcune caratteristiche delle parole cui si accompagnano o stabilire relazioni tra esse.

Basti solo pensare, per capire la difficoltà del compito cui è chiamato un bambino di 8-10 anni, che per arrivare a riconoscere le diverse categorie egli deve per prima cosa "vedere" e riconoscere le loro caratteristiche formali intrinseche: dunque se la parola cambia la sua forma superficiale o se è ‘invariabile’; e se cambia, deve saper ‘vedere’ in che senso cambia: per genere? per numero? per tempo? per modo? per diatesi? e che cosa sono, che cosa possono essere il "tempo", il "modo", la "diatesi’" per un bambino?

Per non parlare del fatto che molte parole - soprattutto, ma non solo, le parole invariabili - possono essere etichettate diversamente a seconda della diversa funzione che svolgono nella frase: per cui giallo può essere aggettivo ma anche nome, le può essere articolo ma anche pronome, prima e dopo possono essere avverbi, o preposizioni, o congiunzioni. Sono questioni complesse, spesso difficili da dipanare anche in età adulta. Pensare che questa materia possa essere presentata ed esaurita una volta per tutte nel ciclo primario è una delle cause del fallimento di cui si parlava.

 

E il secondo errore?

Il secondo errore ha a che fare con la metodologia con cui viene proposta, di solito, la riflessione sulla lingua. Spesso, troppo spesso, più che fare appello alle curiosità e alle straordinarie capacità di osservazione e di analisi che i bambini, tutti i bambini naturalmente possiedono, la scuola si limita ad incasellare i dati linguistici in categorie ("aggettivo") sotto-categorie ("aggettivo numerale"), sotto-sotto-categorie ("aggettivo numerale ordinale"), di cui propone le etichette e i paradigmi da memorizzare e da ripescare, al bisogno, nel momento dell’esercitazione.

Così facendo non si sollecita, non si guida il bambino ad osservare i dati, cercarne altri di simili, confrontare, scoprire somiglianze e differenze di comportamento, capire le diverse funzioni. Quello che invece normalmente si chiede è insieme più facile e più difficile: si chiede di ripescare l’etichetta imparata a memoria - che sarà, a seconda del ciclo scolare, "imperfetto congiuntivo", o "predicato verbale", o "proposizione consecutiva" - e accoppiarla ad una certa forma o a una certa struttura. Si tratta, in ultima analisi, di un esercizio abbastanza meccanico che chiama in causa soprattutto la memoria.

Ma la memoria , se non continuamente esercitata, si appanna, e le etichette, apprese con tanta fatica nel ciclo primario, date poi per acquisite nei cicli superiori, mai riprese e verificate sui casi più problematici, mai più richiamate nell’ultimo triennio della scuola superiore (dove generalmente non si fa più riflessione sulla lingua in modo serio), diventano sempre più oscure e confuse.

Quale meraviglia se poi, posti di fronte alla più semplice delle sequenze, signorine e giovanotti dell’università non riconoscono più niente? La memoria non li sorregge, e in più non sono mai stati esercitati a ragionare autonomamente sui dati linguistici interrogando la propria competenza. Dunque i due errori, nella programmazione e nella metodologia, si sommano per produrre il risultato fallimentare da molti denunciato.

 

Ma allora che cosa si dovrebbe fare in grammatica nella scuola primaria?

In parte l’ho già detto. Intanto bisognerebbe adottare una metodologia attiva, che punti a sollecitare le curiosità linguistiche dei bambini ponendo loro domande e aiutandoli a trovare le risposte. Farò qualche esempio, dei mille che si potrebbero fare: domandare ad un bambino di 8 anni che differenza c’è tra la mamma stira le camicie del babbo e la babbo del mamma stira camicie le significa aiutarlo a "vedere" che la posizione degli elementi nella catena parlata non è casuale.

A partire da qui, potremmo collezionare altre sequenze, più o meno fortemente manipolate, e arrivare a capire assieme la posizione "corretta" di ogni singola parola, a cominciare da quelle più semplici e che pongono meno problemi. Similmente, chiedere ai bambini di confrontare la maestra ride e la maestra ridono o gli maestre ridono significa aiutarli a mettere a fuoco il tema - davvero centrale nella nostra lingua - dell’accordo, nel primo caso tra soggetto e predicato, nel secondo tra articolo e nome.

Le differenze tra le categorie emergeranno lentamente e inesorabilmente, i bambini impareranno a riconoscerne le forme e le funzioni, e a quel punto anche l’etichetta, vale a dire la parola tecnica che in grammatica designa una forma o una struttura, diventerà utile e necessaria per ragionare di grammatica.

 

In una serie di riflessioni che ha sviluppato su “La Vita Scolastica” si è soffermata sul ruolo del verbo. Perché è così importante?

L’idea che mi ha spinto a scrivere del verbo è stata quella di mostrare un percorso nella sintassi adatto al ciclo primario: quindi, in definitiva, è stato un tentativo di incidere sulla programmazione , sulla selezione dei contenuti grammaticali, focalizzando l’attenzione dei docenti su un tema davvero centrale. Ho infatti cercato di mostrare il ruolo del verbo nella costruzione della frase, a partire da un modello teorico, noto col nome di modello valenziale , che ben si presta, a mio parere, a descrivere in modo semplice e potente la struttura della frase, e che è stato per questo adottato da molte scuole di linguistica.

In più, questo modello ha il pregio di essere intuitivo e immediatamente comprensibile anche da parte dei bambini. In quegli interventi ho infatti parlato di "eventi", di "scene", di "attori", per designare i diversi tipi di frasi, i diversi tipi di predicati e i diversi tipi di elementi che svolgono un ruolo obbligatorio in ogni frase.

La terminologia metaforica aiuta i bambini a "immaginare" la scena attivata dal verbo, eventualmente ad "interpretare" concretamente la scena, e infine a "vedere" la struttura della frase cui ciascun verbo può dar luogo. Ma mi rendo conto che questa descrizione è troppo sintetica per poter essere soddisfacente. Conviene allora invitare chi volesse saperne di più a recuperare e leggere direttamente gli articoli in cui ho tentato di presentare il modello nelle sue linee essenziali, adattandolo appunto alla scuola primaria.

 
 
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