Pratiche teatrali per la cura della persona

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I laria Drago, allieva di Perla Peragallo, ha fatto parte della Compagnia di Leo De Berardinis, studiato ricerca vocale con la cantante Rosanna Rossoni, Kaya Anderson e diversi insegnanti del Centre International Roy Hart. Si è formata in Danza Sensibile® con il coreografo Claude Coldy.Ha collaborato con alcuni fra i più grandi letterati e musicisti contemporanei (fra gli altri Nanni Balestrini, Paolo Fresu, Luigi Cinque) e con Roberto Latini in Metamorfosi. Attualmente è impegnata in diversi progetti fra cui: Transhumance_elogio a perdere, Simone Weil_concerto poetico, Metamorfosi_elegia per donne randagie, Migrazioni_cambiare la fine | senza confini Antigone non muore e Migrazioni_duo concert, Viriditas_tornare vivi. Ha pubblicato romanzi, raccolte di testi teatrali e poesia. Vincitrice di diversi premi letterari e teatrali (è fra le “eccellenze italiane” al Premio Europa e Cultura 2019 presso la Sapienza Università di Roma), con i suoi spettacoli definiti “poesia-scenica”. Insegna teatro in tutta Italia ed è fondatrice del progetto TeatroCoscienza.&nbsp;Qual è la tua definizione di Teatro e che specificità ha il tuo modo di fare teatro?Il teatro è un rito meraviglioso che si compie in una comunità che ha voglia di guardarsi dentro, di esplorare e indagare le strade della propria umanità. Una comunità cosciente che ogni cambiamento è una risorsa per crescere. Attraverso di esso è possibile accendere domande e lasciare che colui che guarda possa trovare le sue risposte, connettendosi ai propri bisogni, desideri, sogni. Fare teatro per me è la possibilità di nascere ogni volta in qualcosa di nuovo e di provare a non mentire. È entrare nello sconosciuto senza giudizio e lasciare che si presenti l’emozione o l’intera creazione, come una fioritura improvvisa e sempre inaspettata. Quando lavoro cerco di far emergere emozioni autentiche, entro in empatia con chi e che cosa incontro – un personaggio, una storia – e la faccio agire dentro. Il lavoro è rigirarsi come un guanto e vedere com’è l’interno. Per farlo ci vuole il coraggio di non giudicarsi, di essere al servizio; attraverso la propria verità si può incontrare l’altro. Altrimenti siamo sempre solo lì a fare intrattenimento e divertirci (nel senso etimologico del termine, dal latino divertĕre “deviare”), divergendo da ciò che è davvero necessario. Che cosa è necessario? Essere in contatto con se stessi. Farlo come artista significa permettere che osi farlo anche chi guarda; là allora si entra in una sorta di comunione di intenti. Si condivide.La scuola italiana attraversa un momento di crisi. In particolare, sembra compromesso il piano delle relazioni interpersonali. Il laboratorio teatrale può offrire ai contesti educativi un contributo utile per far fronte al disagio relazionale?La qualità delle relazioni è decisiva. Ognuno di noi sembra immerso nel proprio mondo, nelle proprie problematiche e non sa ascoltare l’altro, non sa sentirlo, in un certo senso, parte di sé. Vessati come siamo spesso dalle circostanze della vita, perdiamo il senso di quello che stiamo facendo, l’intenzione e la passione. E questo riguarda tutti, non solo gli insegnanti. La mancanza di senso, lo smarrimento che proviamo in qualche modo lo trasmettiamo ai bambini e ai ragazzi. Temo che la nostra società sia immersa sempre più in paure e solitudini, la cui unica soluzione prospettata è quella di rintanarsi dietro uno schermo, un cellulare o atti di prepotenza e violenza. Un laboratorio teatrale, che utilizzi anche la via del corpo e del contatto, come ogni altra cosa fatta con coscienza e competenza, credo che possa essere un modo ottimo per rispondere e offrire nuove opportunità per tutti. Abbiamo la possibilità di ricostruire nuove mappe della realtà e se lo facessimo insieme ai bambini o ai ragazzi?Il lavoro teatrale quanto può essere funzionale alla crescita di bambini e ragazzi?Può essere molto funzionale per i ragazzi: può offrire loro l’opportunità di sentirsi come un dono per la comunità e non inutili, ai margini, diversi o esclusi. Può mostrare come l’unicità del loro sguardo e le loro emozioni siano preziosi e non oggetto di scherno. Può aprire la porta alla fiducia in se stessi e alla sperimentazione, perché scoprano che non esistono errori da punire e giudicare, ma solo esperienze che fanno crescere. Non ci sono allievi migliori o peggiori, ma persone, individui con la propria dignità che meritano rispetto. Aggiungo che secondo me sarebbe particolarmente utile una formazione teatrale per educatori e insegnanti. Il teatro può dare molto a chi si occupa di formazione e di istruzione. Chi vuole “insegnare” qualcosa dovrebbe essere coinvolto in ciò che veicola, entrare in gioco; non possiamo pretendere da bambini e ragazzi qualcosa che poi non sentono radicato in chi li vorrebbe guidare. In ogni laboratorio teatrale prima di tutto si stabilisce un rapporto di fiducia reciproca in cui ci si sente parte di un vero progetto comune e in cui la conquista dell’uno è la conquista di tutti. Metto subito in chiaro alcuni punti per me fondamentali: uscire dalle dinamiche di potere, totale rispetto, condivisione anziché competizione. Quello che propongo è un percorso in cui chiunque può fare i propri passi, con le proprie specificità e possibilità. Si tratta di stare in relazione con se stessi, di ascoltarsi; di stare in relazione con l’altro, di ascoltarlo. Fino all’ascolto di una poesia, di un testo, di un personaggio. Sono convinta che queste siano esperienze, acquisizioni importanti per chiunque lavori nei contesti educativi.I ragazzi come affrontano i tuoi laboratori teatrali? Utilizzi con loro specifiche modalità di lavoro, di relazione?Ho incontrato i ragazzi di alcune scuole con lavori dedicati a loro e poi ho avuto nei miei seminari qualche adolescente. Quello che ho riscontrato è stata una grande diffidenza all’inizio che poi si è tramutata in collaborazione e partecipazione emotiva. Ma ho dovuto fare io un passo verso di loro. I ragazzi mi hanno insegnato che occorre tanto rispetto e vero ascolto: ho dovuto modulare il linguaggio, connettermi a loro, capire dove fossero. Ho visto dietro la spocchia e la presunzione di alcuni, dietro gli schermi dei cellulari continuamente accesi, solo una difesa, tanta fragilità e la richiesta forte di essere “visti” per come sono, con le loro paure e i loro desideri. Quando li ho incontrati ho fatto in modo che si sentissero protagonisti della vita e non invisibili, asserviti o manipolati.&nbsp;L'intervista è stata pubblicata sul numero di "Psicologia e scuola" di aprile 2020

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