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La classe fa la differenza! L’inclusione alla prova dei fatti

A volte le parole sono una bella cornice per una tela che tuttavia non cambia. Idee e proposte per fare in modo che l’inclusione non sia solo una parola, ma diventi pratica e attenzione a ciascuno. Di Davide Tamagnini.  

di Redazione GiuntiScuola23 marzo 201810 minuti di lettura
La classe fa la differenza! L’inclusione alla prova dei fatti | Giunti Scuola

Tra il dire e il fare

1977, in Italia viene promulgata la legge 517 che impone alla scuola di guardare alle differenze con un nuovo sguardo, quello che oggi chiamiamo semplicemente inclusione . Abolire le scuole speciali e le classi differenziali, questo era il cambiamento: dare un posto alla disabilità dentro alle classi era ed è il primo passo per costruire una società che sappia accogliere. Perché – si dice – la scuola è palestra di vita! Quarant’anni fa i legislatori hanno spianato una strada, hanno creato le condizioni affinché le diverse abilità di ciascuno potessero esprimersi ed essere valorizzate, ma la tela che dipinge la realtà quotidiana per molti studenti è la stessa di allora, soltanto inserita in una splendida cornice. Purtroppo è paradossalmente normale che l’ insegnante di sostegno sia considerato e si comporti come l’insegnante di uno specifico studente e non della classe, che la disabilità sia “gestita” fuori dall’aula e non insieme, che la personalizzazione degli apprendimenti si traduca in una semplificazione piuttosto che in un loro adattamento. Lo spazio condiviso d'altronde è solo condizione necessaria, ma non sufficiente per trasformare il paradigma della separazione. Le parole con cui descriviamo la realtà che vorremmo costruire si sono modificate (integrazione, inclusione e oggi qualcuno parla di universquità), ma le esperienze che talvolta viviamo hanno ancora un sapore antico.
Se provassimo, come ci ricordano le normative in materia, ad allargare lo sguardo dalla persona con disabilità alla persona, alla profonda complessità della sua storia e del suo progetto di vita non solo vedremmo che ciascuno è portatore di bisogni educativi speciali, ma che la normalità dipende dal nostro punto di vista e che i cliché e la burocrazia altro non sono se non un meccanismo di sfocatura tale da impedirci di cogliere quei dettagli essenziali per costruire percorsi di inclusione dentro e fuori la scuola.
Abbiamo però bisogno di prendere coscienza dell’esistenza dei paradigmi che governano la prassi nella scuola, rivelatori del modo in cui vediamo gli studenti e le loro possibilità. Decostruirli è necessario per comprendere: essi e noi stessi.

Gli alunni non sono secchi

Penso innanzitutto all’idea secondo la quale insegnare sia un riempire contenitori vuoti, con quell’esercizio ripetitivo sempre orientato alla testa degli studenti, unica parte del corpo ritenuta degna di attenzione. La deriva di questa impostazione riempitiva nella quale è facile scadere è che se gli studenti sono secchi esisteranno coloro che sono capaci di ingurgitare grandi volumi di informazioni, i “secchioni”, e invece dei secchielli più piccoli che semplicemente verranno riempiti di meno. Dobbiamo trasformare questa relazione tra insegnanti e studenti , metterci nella condizione di educarci reciprocamente. Forse, anziché riempire, come insegnanti dovremmo chiederci quali vuoti possiamo tentare di aprire nelle nostre vite affinché per ciascuno di noi aumenti la sete di apprendere, la motivazione a ricercare risposte ai propri bisogni di crescita umana. Per aprire questi varchi dobbiamo mettere in gioco tutto il nostro “corpo docente”, lo sentiamo ogni volta che uscendo da un’aula ci sentiamo affaticati, attraversati da mille stimoli e pensieri per aver insegnato e appreso. Come possiamo dunque insegnare considerando solo la testa del discente e non tutto il suo corpo?
Un'altra idea pervasiva nella scuola è quella secondo la quale tutti devono fare la stessa cosa . Una legge non scritta che vale sia per gli insegnanti, sia per gli studenti. Compiti in classe o d’istituto uguali per tutti, strumenti per l’apprendimento non differenziati, fino ad arrivare a rigettare l’autonomia didattica in nome di una più protettiva omogeneità dei programmi e delle attività da proporre in contesti diversi. Se è possibile fare tutti allo stesso modo allora scattano due subdoli meccanismi per chi viaggia a “marce ridotte”: dispensare e misurare. Perché a volte sembra che alla fine di tutto il problema a scuola sia questo: siccome “dobbiamo” misurare gli apprendimenti con indicatori “oggettivi”, è meglio che certe persone siano certificate e dispensate da fare le fatiche degli altri, perché fuori scala. Dispensare è delegare la propria responsabilità educativa, in particolare quando diventa mettere qualcuno alla porta, perché “dentro” non gli si fa spazio.

L’aula come laboratorio di ricerca

Accogliere la persona umana nella sua unicità per compiere con essa un cammino di crescita, significa mettere costantemente in discussione questo paradigma, le cui colonne non cedono forse perché sono le cariatidi che sostengono l’edificio che alcuni insegnanti abitano abusivamente. Guardiamo alla persona se condividiamo l’idea di accogliere ciascuno studente nella sua unicità, se accettiamo di poter imparare qualcosa da ciascuno di loro, fosse anche solo la mappa delle loro specificità e quali siano le modalità efficaci per dare ad esse risposta e stimoli, se, in sostanza, ci impegniamo a intraprendere quel pericoloso viaggio di scoperta che ci condurrà ad innamorarci di ciascuno di loro, allora possiamo provare a capire cosa fare e come è meglio muoversi per rimanere coerenti con questo sguardo nella nostra pratica scolastica. Per includere, per rimanere gli uni legati agli altri dobbiamo abbracciare lo sguardo dei diversi soggetti con cui lavoriamo e mettere a loro disposizione una pluralità di esperienze.
Penso alle esperienze che possono nascere in classe dall’ uso di materiali di sviluppo . L’idea di fondo è quella non solo di reificare il sapere, oggettivizzarlo e in questo modo renderlo manifesto, ma, soprattutto, quello di dare mandato all’esperienza diretta degli studenti, riconnettendo così il corpo alla mente. Un’aula apparecchiata con molti materiali, suddivisi per campi d’esperienza/discipline diventa un laboratorio di ricerca. Lasciando che gli studenti possano utilizzare quelle che Montessori definisce delle “astrazioni materializzate” in una cornice di “lavoro libero”, l’insegnante può affiancare ciascuno studente per aiutarlo non solo a scoprire le potenzialità del medium, ma anche per sostenere il suo specifico percorso di apprendimento, diventando entrambi più consapevoli sui processi cognitivi in gioco, su come potenziarli o modificarli. Mentre il materiale insegna, l’insegnante impara.
Penso alle esperienze che possono nascere dalla costruzione di mappe concettuali , fatte insieme agli studenti, raggiungendo così il duplice obiettivo di lavorare sul metodo di studio e su uno strumento concreto per la memorizzazione e l’apprendimento. Uno strumento che permette di codificare dei concetti e volendo di trasformarli in immagini; in entrambi i casi la mappa diventa un’istantanea che permette allo studente di orientarsi nel maremagnum delle conoscenze e un’icona di sintesi.

L’inclusione è una lente per osservare e costruire

Penso allo sforzo quotidiano di partire dalla realtà che viviamo, quella tridimensionale dell’esperienza che gli studenti portano con sé da casa o quella da costruire insieme a scuola. Un complesso di possibilità faticoso da gestire, ma gravido di possibilità, di intuizioni, di strade da esplorare. Invece che affidarsi ogni giorno soltanto alla bidimensionalità dei libri e delle schede fotocopiate, a saperi decontestualizzati, possiamo “abitare” il mondo di ciascuno, condividerlo, comprenderlo e modificarlo.
Penso alle esperienze vissute in una classe cooperativa , dove l’altro non è un competitor o una zavorra, ma anche colui dal quale imparare e al quale insegnare. Perché nel costruire insieme qualcosa impariamo il savoir-faire dei rapporti sociali, della dipendenza positiva dagli altri, a condividere la fatica dei processi e il successo dei risultati.
Penso allo sguardo di cui tanto abbiamo già detto, che ponendosi in quella zona di sviluppo tra l’edito e l’inedito comunica a ognuno che c’è qualcuno che crede in te e con te affronta le sfide.
Nessuno di queste strade è adatta per uno specifico studente, ma tutte lo possono essere. Solo una pluralità di proposte può adattarsi a far dialogare le diversità affinché ciascuno trovi risposta. L’inclusione non è per quegli studenti che vengono etichettati con la lettera H o con altre sue sfumate sigle. L’inclusione è una lente con la quale osserviamo, pensiamo, costruiamo e giudichiamo i diversi mondi che attraversiamo. A valle di questa riflessione mi sento di affermare, provocatoriamente, che la lettera H, quale simbolo di una disabilità temporanea o permanente, è la migliore etichetta partorita dal linguaggio burocratico. Perché in italiano la H è muta e questo descrive il modo in cui molti studenti vivono o subiscono il loro stare in classe; non hanno voce in capitolo nei percorsi e nella didattica di certe scuole, nella voce e nei pensieri di certi insegnanti. Ma l’H è anche la lettera che fa cambiare suono ad altre e il significato delle parole in cui è inserita. Ha la forza di modificare ciò che sta intorno ad essa. Non si fa sentire, ma chi sa accostarvisi, sa che la sua presenza può fare la differenza.
Maestro: “Che numero c’è dopo il 99?
“100!”
“Non ci stava nella famiglia da 2 cifre!”
Maestro: “Scusate, ma se sono sempre 9 perché si chiama ‘sistema decimale’?”
“C’è anche lo zero!”
Maestro: “Lo zero lo usiamo per cambiare famiglia. Le altre cifre invece sono sempre le stesse.”
“È un po’ come l’h, è muto!”
Maestro: “Cosa intendi?”
“Che non si sente, ma cambia il numero. Come l’h che non la leggiamo, ma quando c’è cambia la parola!”

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