Raccontami la tua storia: un laboratorio di scrittura autobiografica e biografica

Caro diario… La scrittura autobiografica: spazio di narrazione e di relazione

Toccare, ascoltare, gustare. Insegnare e imparare in un’aula senza pareti

<h2>Se la paura avanza </h2>

<h2>Ma la guerra cos&rsquo;&egrave;?</h2>

<h2>Una guerra non &egrave; un litigio</h2>

Quando &egrave; difficile dare un senso alle drammatiche immagini viste e alle parole ascoltate, il sentimento principale che pu&ograve; emergere nel bambino &egrave; la paura. Se si dispone di un vocabolario limitato &egrave; ancora pi&ugrave; complicato darle un nome e descriverla: &egrave; facile allora che venga ingigantita e prenda il sopravvento. Di questo troviamo un&rsquo;efficace metafora nel libro Cane nero di Levi Pinfold (Terre di mezzo): qui la paura &egrave; rappresentata da un cane di dimensioni gigantesche, che per&ograve; si ridimensiona man mano che lo si conosce, fino a ridursi ad un cucciolo mansueto.

Per favorire l&rsquo;espressione di ci&ograve; che prova, offriamo ad ogni bambino un consistente blocco di creta e invitiamolo a creare&nbsp; un&rsquo;immagine della sua paura: modellando avr&agrave; occasione di esprimere con gesti e parole la sua tensione e di darle forma. Al termine invitiamolo a &ldquo;distruggere&rdquo; la sua paura con un gesto catartico:&nbsp; immergiamo la sagoma in un contenitore con un po&#39; d&rsquo;acqua e osserviamo come gradualmente si sciolga. Con il fango che ne resta, giochiamo a spaventare la paura con le nostre stesse mani&hellip; mostruose!

Per la maggior parte dei bambini che frequentano le nostre scuole la parola guerra &egrave; stata fino a poco tempo fa quasi sconosciuta e sicuramente lontana dal vocabolario della quotidianit&agrave;. Da qualche settimana invece la sentono ripetere dalla televisione, dagli adulti e, pur non sapendo esattamente di cosa si tratti, certamente percepiscono il clima di tensione e paura che accompagna il suo evocarla.

Come educatori dobbiamo essere aperti all&rsquo; emergere di domande su questo tema, senza anticipazioni o forzature, ma con la sensibilit&agrave; di chi sa cogliere le emozioni che il bambino vive e sa dare loro voce.

Per fare questo possiamo sfruttare i momenti di conversazioni quotidiana e proporre alcuni testi come stimolo per affrontare in modo concreto questo argomento, che purtroppo tocca sempre pi&ugrave; da vicino le nostre realt&agrave;, prestando attenzione a non cedere a generalizzazioni che possono allontanarci dall&rsquo;obiettivo.

Darne una definizione e soprattutto trovare un senso ad un conflitto di cos&igrave; grande portata e implicazioni &egrave; di certo complicato. Quando la domanda &egrave; posta in modo diretto dal bambino &egrave; perch&eacute; ne ha gi&agrave; sentito parlare e desidera spesso essere rassicurato. Raccogliamo quello che sa, restituendo ascolto e conforto. Se poi &egrave; proprio necessario addentrarci in spiegazione circa le dinamiche della guerra, un utile albo illustrato che possiamo proporre &egrave;&nbsp; Perch&eacute;? di Nikolai Popov (Nord-Sud edizioni): topi e ranocchi si affrontano con attacchi e contrattacchi fino alla distruzione, facendo ben percepire l&rsquo;assurdit&agrave; del conflitto e le sue conseguenze.

Nel parlare di guerra un errore che si rischia di commette quando si cerca di semplificare, &egrave; quello di paragonarla ad un litigio. I bambini sperimentano quotidianamente la normale ambivalenza nei rapporti con i pari: discutono, urlano, a volte si picchiano per poi riappacificarsi. Tutto ci&ograve; fa parte delle dinamiche essenziali nel processo di costruzione dell&rsquo;identit&agrave; e non ha nulla a che fare con la guerra. Nei conflitti il bambino impara a conoscere i propri limiti e sviluppa il pensiero sociale e la creativit&agrave; che lo portano a cercare soluzioni efficaci.

Ne parla molto bene il libro Il litigio di C. Boujon (Babalibri) nel quale due coniglietti attraversano tutte le fasi di un tipico contrasto tra bambini: dalle parole offensive, alle urla e perfino allo scontro fisico per poi scoprire che, unendo le forze, si possono sconfiggere i pericoli e tornare ad essere pi&ugrave; amici di prima.

Nel contesto scolastico, l&rsquo;adulto tende a bloccare i litigi intervenendo precocemente per il timore che la situazione degeneri ma, impedendo lo scontro, di fatto non permette ai bambini di confrontarsi fino in fondo l&rsquo;uno con l&rsquo;altro e di conoscere meglio se stessi.

Quando non padroneggia ancora bene la lingua &egrave; ancor pi&ugrave; difficile trovare le parole per mettersi d&rsquo;accordo con i compagni e per comprendere i punti di vista altrui. E&rsquo; utile allora proporre qualche gioco corporeo che dia la possibilit&agrave; di sperimentare concretamente che usare la forza in un conflitto non &egrave; una strategia vincente.

Uno di questi &egrave; il gioco delle spinte: i bambini si posizionano a coppie in ginocchio uno di fronte all&rsquo;altro, su un prato o una superficie coperta da tappetini o tatami. Il gioco consiste nello spingersi con le mani a vicenda cercando di far perdere l&rsquo;equilibrio al compagno fino a fargli toccare terra; &egrave; importante dare regole chiare come il divieto di afferrare e trattenere.

Il bambino attraverso prove ed errori capir&agrave; che, non &egrave; la pressione che esercita, ma al contrario la capacit&agrave; di anticipare i movimenti dell&rsquo;altro e di non essere troppo impetuoso, a fargli raggiungere l&rsquo;obiettivo.

I giochi di lotta come questo, di fatto, aiutano il bambino a canalizzare la naturale aggressivit&agrave;, a gestire la competizione, ad osservare e prestare attenzione all&rsquo;altro, aspetti altrettanto essenziali nelle relazioni quanto la gentilezza e la cura.

Litigare quindi non significa fare guerra: sebbene la convivenza serena e armoniosa resti il nostro obiettivo educativo, in questo tempo di tensione e paura, una vera cultura di pace non dovrebbe soffocare il conflitto ma insegnare pi&ugrave; che mai a saperlo gestire.

Storie per quando la guerra è vicina

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