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Bambine e bambini delle migrazioni: intercultura e resilienza

Percorsi di riflessione sull’importanza della resilienza nella relazione educativa. Di Alessandro Vaccarelli, Università degli Studi dell'Aquila.

di Redazione GiuntiScuola22 novembre 201717 minuti di lettura
Bambine e bambini delle migrazioni: intercultura e resilienza | Giunti Scuola

Il tema della resilienza non è molto frequentato all’interno della scuola e della pedagogia, per quanto, negli ultimi anni, questo concetto inizia ad avere una certa “fortuna” in tanti ambiti della ricerca scientifica (soprattutto quella psicologica) e dell’intervento nei contesti di crisi e di disagio.
Partiamo da una definizione generale , che ci sarà utile per capire come e perché di resilienza si può parlare all’interno degli approcci educativi di taglio interculturale e di una relazione educativa orientata alla promozione e allo sviluppo di quel potenziale umano che ci consente di attraversare i momenti difficili della vita, le situazioni di disagio, di stress, fino ad arrivare a quelle segnate dal trauma e dal post-trauma.
In latino resilire , da cui deriva il nostro termine in questione, rimanda ai significati di rimbalzare , saltare all’indietro , ad indicare una proprietà che il concetto di resilienza attualmente in uso prevede come sua proprietà specifica: la flessibilità. La resilienza può definirsi dunque come capacità di fronteggiamento delle situazioni avverse, di attraversamento delle difficoltà della vita, di ricerca di nuovi equilibri dentro i quali i soggetti sentiranno di aver acquisito forza, coraggio e prospettiva futura.
Nelle indagini PISA , il termine resilienza viene considerato specificamente in rapporto alle minoranze culturali, ma con un significato diverso da quello che utilizziamo nel contesto del nostro discorso. Nelle comparazioni internazionali, resilienza sta ad indicare infatti la “tenuta scolastica” dei gruppi svantaggiati, vale a dire la posizione di quei soggetti che pur trovandosi in condizioni di svantaggio socio-economico, ottengono punteggi molto alti secondo gli standard internazionali in diversi ambiti di competenza. Tralasciamo però questa traiettoria interpretativa, dedicandoci al primo significato che abbiamo precedentemente abbozzato e ponendolo in relazione alle situazioni di bambine, bambini, ragazze, ragazzi delle migrazioni che popolano le nostre aule scolastiche.

Bambini della migrazione e resilienza

Partiamo dal presupposto che la resilienza può essere promossa attraverso l’educazione e la cura educativa. Ogni giorno l’insegnante entra in una classe in cui – sempre – qualcuno dei suoi membri sta vivendo un processo resiliente : la bambina diversamente abile, che attraversa una condizione psichica, fisica o sensoriale che la pone di fronte a sfide e sforzi anche di tipo emotivo, il bambino che ha perso il nonno e che dunque deve elaborare un lutto, soggetti che vivono situazioni familiari difficili, storie di abuso celate nel non detto, bambini che stanno costruendo il loro attaccamento ai genitori adottivi, bambine venute da lontano che sperimentano la sensazione dell’estraneità (sociale, culturale, linguistica). La casistica è ampia e certamente non si riduce agli esempi appena forniti. La classe – sempre – è un insieme di umori , stati d’animo ed emozioni molto differenziato, che articolano, diversificano, rendono ancor più eterogeneo quel gruppo con il quale portiamo avanti percorsi di apprendimento e di crescita sociale. Se mettiamo la lente di ingrandimento sui bambini e sulle bambine, sugli/sulle adolescenti delle migrazioni, si aprono numerosi percorsi di riflessione sull’importanza della resilienza nella relazione educativa.

Partiamo da quei soggetti che arrivano in Italia attraverso l’adozione internazionale e lo facciamo perché le Linee di indirizzo per favorire il diritto allo studio degli alunni adottati (MIUR, 2014) sono il primo documento ufficiale destinato al mondo della scuola ad utilizzare il concetto di resilienza: “Migliore è la costruzione di un clima accogliente, più attendibili e prevedibili le rassicurazioni degli adulti, più facilmente si attiveranno negli alunni strategie di resilienza”. Il documento specifica inoltre: “S'intende per resilienza la capacità di mitigare le conseguenze delle esperienze sfavorevoli vissute nel periodo precedente l'adozione. Tra i fattori in grado di promuovere la resilienza nei bambini cresciuti in contesti difficili risultano fondamentali gli ambiti di socializzazione e in primo luogo la scuola, in particolare se essa valorizza le differenze, favorisce positive esperienze tra pari (studio, attività ludiche e sportive, amicizia) e promuove rapporti di stima e fiducia tra insegnanti e allievi”. L’adozione internazionale è certamente un “contesto” in cui la resilienza va attivata e sostenuta, da un lato per le storie, talvolta cariche di portato traumatico e sempre segnate dalla separazione e dal distacco, dall’altro per l’adattamento ai nuovi codici culturali, linguistici e alla nuova rete di relazioni sociali.
Consideriamo anche le bambine, i bambini, gli/le adolescenti di prima generazione , soggetti che arrivano con la loro famiglia senza aver scelto di partire: come insegnanti, sopraffatti dalle nostre ansie per i loro apprendimenti (linguistici e curricolari), dimentichiamo spesso che proprio il portato emotivo della condizione di piccoli migranti può essere un fattore chiave per bloccare o sbloccare i processi che spiegano il successo negli apprendimenti e nell’inserimento scolastico. E qui, l’accoglienza gioca un ruolo chiave per far fronte a tanti fattori di vulnerabilità che colpiscono i soggetti migranti: come attutire i colpi del lutto migratorio o dello shock culturale ? Come attutire i colpi dello shock linguistico, quando in condizioni di sommersione dentro i codici di una lingua che non si conosce o non si padroneggia abbastanza, i nostri alunni e le nostre alunne sperimentano sensazioni di ansia, di disagio, di straniamento? E ancora: quali storie hanno indotto i genitori a partire, quale storia familiare, quali eventuali traumi accompagnano queste famiglie in un viaggio che, sempre più spesso, assume il carattere della tragedia sfiorata, vissuta, rischiata?

Ragazze e ragazzi di seconda generazione – che spesso non ci preoccupano perché cade, dal punto di vista dell’insegnante, uno dei principali fattori ansiogeni, vale a dire la mancata o scarsa conoscenza dell’italiano – si presentano talvolta come soggetti che meritano attenzioni pedagogiche volte a sondare nelle pieghe dei vissuti, laddove si collocano i temi delle appartenenze, del riconoscimento, del clima sociale entro cui sono inserite/i. Una generazione involontaria – per usare le parole di T. Ben Jelloun – che non ha fatto il viaggio, ma che in qualche modo lo ha “subito”, che vive la condizione del migrante senza esserlo stato effettivamente. Il “mi sento italiano/a” a fronte di un Paese che polemicamente sta affrontando i temi dello ius soli e dello ius culturae , si accompagna spesso a quella sensazione di doppia assenza che per il sociologo di origini algerine Abdelmalek Sayad, spinge i soggetti a non sentirsi mai nel posto giusto, a percepirsi stranieri a partire dalle percezioni altrui, italiano nel Paese di origine e straniero in Italia. Laddove il clima sociale è condizionato da paure indotte da un linguaggio pubblico che orienta e costruisce rappresentazioni sociali sulle migrazioni tutte centrate sulle idee di invasione e pericolo, è facile cadere dentro relazioni sociali asimmetriche e discriminanti, che tra i banchi di scuola possono tradursi nelle logiche dell’esclusione, della marginalizzazione, del bullismo e del razzismo. Psicologi e psichiatri hanno definito il quadro di quella specifica condizione, chiamata minority stress , entro cui i membri di una minoranza (che può definirsi a partire da tanti fattori, compreso l’orientamento sessuale) sperimentano sensazioni di forte disagio emotivo che possono rallentare il raggiungimento dei propri obiettivi.
I minori stranieri non accompagnati, infine. Un fenomeno, quello delle migrazioni dei minori soli, che negli ultimi anni è cresciuto significativamente e che rappresenta per il nostro sistema di accoglienza e anche per la scuola, soprattutto di secondo ciclo, una sfida interculturale di enorme importanza. Il sostegno alla resilienza non può che diventare il filo rosso di tutta la progettualità pedagogica che investe questi ragazzi e queste ragazze, che arrivano in Italia dopo laceranti separazioni, in solitudine, spesso dopo aver vissuto situazioni fortemente traumatizzanti sia nel Paese di origine sia durante il viaggio per raggiungere le nostre coste.

L’insegnante “tutore/tutrice di resilienza”

Torniamo dunque a centrare il nostro discorso sul tema della resilienza e a spiegare come, attraverso alcuni suoi principali elementi, l’insegnante può sostenerla attraverso un rapporto di cura educativa di tipo interculturale. Parlare di resilienza come costrutto non solo psicologico ma anche pedagogico, significa anche isolare alcuni fattori che spiegano il comportamento resiliente dei soggetti. Tra questi ricordiamo il sentimento di base sicura, che si sviluppa in presenza di legami significativi di supporto, l’autostima, adeguate strategie di analisi del problema (appraisal) e di fronteggiamento (coping), l’ironia e il senso del comico e un pronunciato senso dell’etica. Senza entrare nel merito di tutte le componenti che spiegano la resilienza, prenderemo in considerazione solo quelle più significative, che nel lavoro educativo e didattico possono essere considerate come leve pedagogiche per la promozione e lo sviluppo della resilienza personale.

Promuovere il sentimento di base sicura
Il sentimento della base sicura, che classicamente viene letto come costruzione affettiva con le figure primarie, genitoriali dunque, conferisce al soggetto la possibilità di sentire contenute le proprie emozioni, di sentirsi parte di un legame che rassicura, conforta, ci fa da specchio e da base di lancio per le avventure nel mondo. Ci ricorda Cyrulnik, uno dei maggiori studiosi della resilienza su scala internazionale, che questo sentimento può essere promosso però anche all’interno di relazioni che stabiliscono legami leggeri, deboli, vale a dire all’interno di quei contesti in cui la figura adulta non coincide con quella genitoriale, senza tuttavia precludere la possibilità di porsi come soggettività significativa e portatrice di resilienza: l’educatore o l’educatrice in una casa famiglia, l’insegnante per un alunno o un’alunna che vive una situazione complessa e critica, ecc.. Si diventa in questo modo tutori di resilienza quando, dentro il legame leggero, si tenta di dare una risposta in termini di sicurezza emotiva, di riconoscimento, di spinta verso le sfide, di accettazione incondizionata (per usare un’espressione cara a Rogers). È dunque fondamentale curare la relazione educativa tra insegnante e alunna/o nelle dimensioni che riguardano un’affettività che certamente non va letta come momento extra-didattico e che, anzi, lo include al suo interno. A cominciare dallo sguardo rassicurante, dall’atteggiamento empatico, dal riconoscere le emozioni di alunni e alunne e dal darne prova, l’insegnante dosa e misura i compiti dell’apprendimento, manipola il contesto situazionale, riduce il senso della sommersione (anche attraverso specifici dispositivi per l’accoglienza), costruisce la con-fidenza, la fiducia nel rapporto, la base per ogni altra avventura sociale o apprenditiva. E crea le condizioni per un clima di classe e relazionale, in cui il tema dell’amicizia non viene oscurato dai tempi frenetici che oggi marcano l’identità della scuola, ma viene messo al centro dei percorsi legati alle competenze non solo pro-sociali ma anche cognitive (in questo il cooperative learning, le esperienze di giochi cooperativi possono essere esempi illuminanti).

Promuovere l’autostima (anche culturale)
L’autostima dei nostri alunni e delle nostre alunne migranti assume valore anche in riferimento alla cultura o alle culture di riferimento, alle lingue, alle religioni, ai tratti somatici. Essa si costruisce attraverso la stima che gli altri ci rimandano, nel gioco di specchi che le relazioni attivano dinamicamente. La valorizzazione in classe delle altre culture e delle altre lingue diventa in questo senso un importante fattore di sostegno alla resilienza dei nostri alunni, poiché, oltre a favorire apertura in tutti i membri della classe, sviluppa quel senso di autostima culturale, quella sorta di pride , che porta i soggetti ad integrare positivamente - all’interno di un senso di appartenenza interculturale - gli elementi che rimandano in senso stretto e in senso lato al qui e all’ altrove . L’autostima è determinante per creare quel senso di autoefficacia che si traduce dunque nella fiducia nelle proprie risorse e potenzialità, che ci dà coraggio nell’affrontare i momenti più difficili.

Analizzare la situazione (dunque: narrare e narrarsi)
Il modo in cui affrontiamo le situazioni più difficili dipendono da specifiche strategie di coping (dall’inglese to cope : far fronte, reagire, lottare, superare). I nostri comportamenti, quello che ci ritroviamo ad agire nei momenti di difficoltà molto dipendono però dalle nostre capacità di analizzare e scomporre i problem i, che spesso si pongono ai nostri occhi come vere e proprie attività di problem solving esistenziale . Tecnicamente definiamo tali capacità nel termine appraisal . Tanta letteratura pedagogico-interculturale ci invita ormai a frequentare i territori della narrazione, della narrazione di sé, come momento fondamentale per dare senso e significato alle esperienze, anche quelle più dolorose, per trovare il modo di sistemare sulla trama del nostro romanzo individuale quei frammenti di vita che oggi costituiscono “il problema” e che domani saranno letti come pezzi importanti della storia , senza i quali non saremo le persone che intendiamo diventare. Senza scomodare i più importanti studiosi che si sono occupati di questo, come Demetrio e Favaro, lo stimolo a raccontare di sé – attraverso varie forme da situare nella relazione pedagogica e didattica – rappresenta anche lo stimolo ad attivare quelle forme di intellettualizzazione dell’esperienza che ci permettono di guardarla con distacco, di oggettivarla e di ri-soggettivarla con significati nuovi da proiettare al futuro. E anche il racconto interculturale, attraverso l’uso di specifici generi letterari (come ad esempio la fiaba), può attivare quei processi di analisi delle situazioni problematiche che possiamo proficuamente riattivare quando, chiamati ad essere resilienti, ci troviamo ad affrontare una qualche prova della vita.

La resistenza delle alghe

Carl Rogers, il grande psicologo umanista, ammirando il mare, ebbe modo di riflettere su una pianta acquatica, un’alga, esposta alle potenti forze dei flutti, facendola diventare metafora della vita:

«Guardandolo col binocolo, mi accorsi che si trattava di una specie di alghe, con un tronco sottile che terminava con un ciuffo di foglie. Sembrava inevitabile (…) che quella fragile pianta sarebbe stata completamente schiantata e distrutta dall’onda successiva. Quando l’onda si abbatteva su di essa, il tronco si fletteva quasi orizzontalmente e la chioma afferrata dalla corrente d’acqua diventava una linea retta; eppure, quando l’onda era passata la pianta era ancora lì, dritta, tenace, resistente Sembrava incredibile (...). In questa piccola alga simile a una palma c’era la tenacia e il progredire della vita, la capacità di farsi strada in un ambiente incredibilmente ostile e non solo di sopravvivere ma di adattarsi, svilupparsi e diventare se stessa»
(Rogers, 1978, p. 210).

L’ottica della resilienza ci invita a riflettere, come insegnanti, educatori e pedagogisti che si muovono nelle dimensioni e prospettive dell’interculturala, sulla portata di questo concetto, da considerare nella sua forza e nel suo potenziale, da consapevolizzare ed esplodere nell’intenzionalità del nostro agire costruttivo ed emancipativo.

Per saperne di più

B. Cyrulnik, E. Malaguti (a cura di), Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami positivi , Erickson, Trento, 2005.
D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé , Cortina, Milano 1996
G. Favaro, Raccontare e raccontarsi. Fiabe, narrazioni e autobiografia nell’incontro tra storie e cultur e, 2016
G. Favaro , M. Napoli (a cura di), Come un pesce fuor d’acqua. Il disagio nascosto dei bambini immigrati , Guerini, Milano 2002
C. R. Rogers, Potere personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionari o, Roma, Astrolabio, 1978.
A.Vaccarelli, Le prove della vita. Promuovere la resilienza nella relazione educativa , FrancoAngeli, Milano, 2016

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