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Per una visione ampia della valutazione
Per contrastare una valutazione di fine anno sbrigativa e burocratica, occorre valutare durante tutto l’anno la qualità degli apprendimenti di ogni bambina/o e l’efficacia dell’insegnamento

Arrivati a fine anno, la valutazione purtroppo assume spesso la forma di una faticosa incombenza.
Ricordo ancora il preside del mio primo anno di scuola che, quando mi presentai per prendere servizio, mi disse: “In classe può fare quello che vuole ma se non mi mette sul registro i voti per gli scrutini e le firme rischia il posto di lavoro”.
Alberto Manzi, di cui quest’anno festeggiamo i cento anni dalla nascita, fu sospeso dal servizio per tre mesi, senza retribuzione, perché non aveva compilato i documenti di valutazione. In classe faceva scuola in un modo a dir poco controcorrente, alternando lezioni in classe e in terrazza, portando i ragazzi in giro, anche fuori dal calendario scolastico, con conversazioni continue su qualunque argomento. Ma passò i suoi guai perché non voleva scrivere i giudizi finali previsti dalle norme.
Le dimensioni della valutazione
Finché la valutazione sarà sinonimo di pagella e di attestato finale sarà molto difficile svincolarsi tra i favorevoli e i contrari, tra i nostalgici e i refrattari, tra chi invoca il voto e chi lo demonizza.
Lo stesso Manzi non aveva nulla contro i voti in sé, visti come apprezzamento di un singolo lavoro di un ragazzo. Quello che rifiutava era il fatto di etichettare con un giudizio finale che, in quel periodo, includeva anche aspetti psicologici e morali (“alunno svogliato”, “alunno con scarse capacità di studio”, “poco incline al pensiero astratto” ecc.). Tanto è vero che non disdegnava neppure le gare, in classe e fuori, dalle tabelline alla staffetta, in cui alcuni risultavano più pronti, altri meno. Anche se poi, immancabilmente, giocando sempre in gruppi e su tante attività diverse, tutti avevano le loro gratificazioni o erano sospinti a migliorare in qualcosa.
Ma tutto questo non dovrebbe esaurire l’idea della valutazione in campo didattico.
Possiamo avere posizioni diverse sui voti e sui giudizi, sulla bocciatura e la promozione, ma nessuno può ragionevolmente sostenere che la professionalità di un docente non implichi la capacità di “fare il bilancio” di come sono andate le cose in classe e di quanto ha imparato ogni suo singolo alunno. Al di là delle mode e delle ideologie, quello che occorre a tutti – ai docenti come ai genitori e, soprattutto, agli alunni – è la possibilità di rendersi conto della qualità degli apprendimenti di ogni alunno e dell’efficacia dell’insegnamento. Un insegnante competente ha una sensibilità, e una responsabilità, costanti su questi due aspetti del suo lavoro. Sono due dimensioni distinte che vale la pena di esaminare più da vicino per capire come passare da un’idea, minimalista e spesso fuorviante, della valutazione scolastica a un’idea di valutazione come strumento di controllo e di miglioramento continuo della didattica. Analizziamole una alla volta.
La valutazione deve offrire la possibilità di rendersi conto della qualità degli apprendimenti e dell’efficacia dell’insegnamento
1. La qualità degli apprendimenti
Quando, con lo stesso Manzi, provammo a chiederci se esistesse un modo sensato, e non marchiante, di valutare i singoli alunni, la soluzione che propose il maestro fu quella di fare una grande tabella delle abilità fondamentali per ogni disciplina, inserendo, per ognuna una di queste tre formule:
A = L’abilità è ben visibile
B = L’abilità è parzialmente visibile
C = L’abilità non è visibile
Notare che non si parlava di abilità presente o assente ma di abilità “visibile” o “non visibile”. Ho ancora un modello originale di quella tabella per la classe quarta che, nella sua versione sintetica, era composta da 59 voci. In italiano, ad esempio, erano presenti abilità tipo: “Si esprime bene nella lingua nazionale”, “Scrive correttamente dal punto di vista ortografico”, “Riconosce le varie parti del discorso”. In questo modo la valutazione di ogni bambina/o si articolava in prestazioni abbastanza precise che attestavano il conseguimento di obiettivi chiaramente indicati e coerenti con le Indicazioni nazionali (allora c’erano ancora i programmi, ma il discorso non cambia).
2. L'efficacia didattica
Accanto alla qualità degli apprendimenti dovremmo riuscire a rivolgere la valutazione anche all’insegnamento.
In prima battuta un team di insegnanti che riuscisse a far conseguire a tutti gli alunni, nessuno escluso, l’intero set dei traguardi previsti dalle Indicazioni nazionali, potrebbe ritenere altamente efficace l’insegnamento di tutti gli insegnanti che lo costituiscono. Ma che dire quando questo non avviene? Dobbiamo chiederci in che misura le scelte didattiche di ogni singolo docente abbiano consentito a ogni alunno di raggiungere il livello più alto possibile di competenza. Poniamo, ad esempio, che in una classe tutti, o quasi tutti, gli alunni dimostrino di comprendere quello che leggono e in un’altra vi sia invece una larga maggioranza di bambine e bambini che leggono male e non vanno oltre la comprensione di brevissime frasi attinenti alla loro esperienza quotidiana. Sarebbe certamente il caso di approfondire quali attività e quali metodologie utilizzi l’insegnante della prima classe perché se ne avvantaggino anche i suoi colleghi. È esattamente questa ricerca continua di “scelte curricolari” (metodi, contenuti, attività, organizzazione ecc.) che consente a una scuola di migliorare l’efficacia dell’insegnamento e, conseguentemente, la qualità degli apprendimenti per il maggior numero di bambini.
Un bravo insegnante deve essere capace di fare un bilancio di come sono andate le cose in classe e di quanto hanno imparato i suoi alunni