Virtù dell’errore

Le tecnologie peggiorano l’apprendimento? Che cosa dice veramente il rapporto OCSE

Bambini e sessualità, un avvicinamento troppo precoce?

Il valore di educare nella scuola dell'infanzia

Il valore di educare nella scuola primaria

Impariamo a rilassarci

Tutti insieme nel gruppo classe

Alleniamo la concentrazione

La dimensione corporea è fondamentale, perché altro non siamo che corpo. Solo che continuiamo a vivere con quella logica platonica dell’uomo diviso in due in anima e corpo e a partire da lì, se si pensa che l’istruzione passi per l’anima, al corpo gli si dedicano al massimo degli esercizi fisici. La fenomenologia, a partire da Husserl, Heidegger, Jaspers, e la psichiatria fenomenologica, con Binswanger, hanno eliminato questo paradigma di separazione anima-corpo (che Binswanger chiama il «cancro di ogni Psicologia») instaurando il rapporto “corpo-mondo”. Certo, con la parola “corpo” non si deve intendere l’organismo. L’organismo è la riduzione, che ha operato Cartesio che legge il corpo con gli strumenti della scienza. Il mio corpo non è un organismo. L’organismo è l’oggettivazione del mio corpo, non è “il corpo del mondo e della vita”, il quale è impegnato in un mondo, sollecitato da un mondo, in relazione a un mondo, che suscita emozioni, forme di attrazione e repulsione… Il rapporto “corpo-mondo”, inteso proprio come “corpo del mondo e della vita” e non come il corpo letto cartesianamente con le idee chiare e distinte, che all’epoca sua erano le idee della fisica, oggi della biologia e, addirittura, della genetica. Per la genetica il mio corpo è un’“elica” ma io non sono un’“elica”, io sono al mondo. Giustamente Heidegger non utilizza mai la parola tedesca “uomo”, mensch o mann, ma utilizza sempre l’espressione In-der-Welt-sein, “essere-nel-mondo”. E io non sono nel mondo come una sedia, la sedia è nel mondo ma io sono nel mondo aprendo un mondo. “Il mio corpo è l’assoluto qui di ogni là”, è una dimensione spaziale che è creata dalla postura del mio corpo. Il mio corpo, dal punto di vista temporale, è “quell’ora di ogni allora”. Il passato e il futuro sono miei vissuti, non sono eventi cronologici che il mio corpo vive. A seconda se è giovane, vive il futuro con uno sguardo molto intenso, se è vecchio vive il passato con un’esagerazione spaventosa, però è il mio corpo che registra questa temporalità e questa spazialità vissuta. Il corpo è essenziale, però oggi la nostra scuola che cosa fa con il corpo? Gli fa fare educazione fisica! E con questo rientriamo nella considerazione dell’“organismo”. Certo, l’educazione fisica fa bene, ma a che cosa? All’organismo ma non al corpo. Quando Cartesio faceva le sue lezioni a Elisabetta di Boemia, la Principessa Palatina di Svezia, un bel giorno la Principessa disse: «Maestro, lei mi dice che il mio corpo deve essere guardato con idee chiare e distinte, ma io lo sento il mio corpo, subisce delle emozioni, delle impressioni in relazione all’ambiente in cui vivo…». Cartesio le rispose, naturalmente dal suo punto di vista: «Vedo che, nonostante il suo rango, lei la pensa come il popolo». Certo, il popolo pensa il corpo in relazione all’ambiente. Quando dico “mondo”, quindi, non intendo il mondo in generale, ma il “mondo-ambiente”, il mondo circostante: la famiglia, la scuola, il mio quartiere. A questo proposito, che cos’è la psiche? Non è una cosa, non è un’anima, non è una mente. La “psiche” altro non è che la relazione “corpo-mondo”. È chiaro che se il corpo vissuto esce dai processi educativi (sto dicendo il corpo vissuto, non l’organismo che non ha bisogno di alcuna educazione se non di quella fisica), se il corpo è tagliato fuori, stiamo al mondo come persone inabili.

Recuperare la soggettività significa ipotizzare che la nostra scuola educhi; invece la nostra scuola si limita a istruire. Educare vuol dire conoscere la soggettività, ma questa soggettività ha due canali: il primo richiede l’individuazione della specifica intelligenza di ciascun allievo, perché l’intelligenza che la scuola misura è soprattutto quella logica, nell’ambito sia delle discipline letterarie sia di quelle matematiche. Come ha messo bene in evidenza Gardner, ci sono però vari tipi di intelligenza: ci può essere un’intelligenza artistica, un’intelligenza musicale, un’intelligenza spaziale… ecco, queste forme di intelligenza devono essere riconosciute e curate, perché solo partendo dalla propria specifica inclinazione un ragazzo può espandersi ad altre forme di intelligenza, in particolare a quella logico-matematica a cui la scuola di solito si attiene. Se non partiamo dallo specifico tipo di intelligenza di ciascuno, avremo dei ragazzi che capiscono e non capiscono, perché è stata trascurata la loro via di accesso alle altre forme di intelligenza. Il secondo canale passa per un’educazione emotiva. I ragazzi iniziano la scuola primaria a 5 o 6 anni, quando sono regolati sostanzialmente dalle loro pulsioni. Quando si fermano a livello pulsionale abbiamo a che fare con i bulli, i quali non hanno alcuna risonanza emotiva nella differenza tra il bene e il male, tra ciò che è importante e ciò che non lo è. Kant diceva che la differenza tra bene e male potremmo anche non definirla perché ciascuno la sente. Usa il verbo “sentire”, in tedesco fühlen, che è il sentimento che ci dà la risonanza emotiva delle nostre azioni, e se un ragazzo non ce l’ha, bisogna che la scuola lo accompagni dal livello pulsionale al livello emotivo. Che cosa fa l’istituzione scolastica con i bulli? Li sospende, e invece dovrebbe tenerli a scuola il doppio del tempo rispetto agli altri e star loro vicino finché non maturino dal punto di vista emotivo. Purtroppo la scuola una simile dimensione non se la assume, così come non si assume un’educazione dei sentimenti: i sentimenti si imparano, non sono una dote naturale ma un prodotto culturale. Tutte le tribù primitive, attraverso i miti, le narrazioni orali, hanno insegnato la differenza tra il puro e l’impuro, tra il sacro e il profano, tra il bene e il male. Anche le nostre nonne, quando ci raccontavano delle storie da piccoli, ci allenavano a capire che cosa è bene e che cosa è male. Non parliamo poi dei Greci, che hanno dato una rappresentazione grandiosa dei sentimenti, delle passioni umane attraverso la mitologia: Giove rappresentava il potere, Atena l’intelligenza, Afrodite la sensualità, Apollo la bellezza, Dioniso la follia. Ora noi oggi non possiamo più ricorrere ai miti, però abbiamo quel serbatoio enorme che si chiama letteratura: che cosa insegna la letteratura? Insegna che cos’è il dolore in tutte le sue declinazioni, che cos’è l’amore in tutte le sue configurazioni, che cosa sono la gioia, l’angoscia, la disperazione, la speranza, il coraggio… Secondo me queste cose vanno insegnate attraverso la letteratura, per cui non bisogna riempire le scuole di “cavie digitali” e di computer, bisogna riempirle di letteratura, perché solo se uno ha un’educazione sentimentale è in grado poi anche professionalmente di essere un uomo e soprattutto di salire ai livelli dirigenziali senza diventare una canaglia.

Quali condizioni sarebbero necessarie per ottenere tutto ciò?

Umberto Galimberti è filosofo, psicoanalista e docente universitario. Laureato in Filosofia nel 1965 con Emanuele Severino presso l’Università Cattolica di Milano, ha frequentato l’Università di Basilea, dove è venuto a contatto con lo psichiatra e filosofo Karl Jaspers, di cui è diventato uno dei principali traduttori e divulgatori italiani. Nel 1976 è Professore incaricato di Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, quindi Professore ordinario di Filosofia della Storia nel 1999. Dal 2002 ha insegnato Psicologia generale, Psicologia dinamica, Filosofia morale. Nel 1985 è diventato membro ordinario dell’International Association for Analytical Psychology. Ha collaborato con “Il Sole 24 Ore” dal 1987 al 1995, anno in cui ha iniziato la collaborazione, a tutt’oggi attiva, con “la Repubblica”. Nel 2002 gli è stato assegnato il premio internazionale “Maestro e traditore della psicoanalisi” e, nel 2011, il premio Ignazio Silone per la cultura.

Lei ha scritto un’opera basilare sul corpo. Quanto è importante, secondo lei, recuperare o comunque dare più spazio alla dimensione corporea nei contesti educativi?

Il passato e il futuro sono miei vissuti, non sono eventi cronologici che il mio corpo vive

Che effetti collaterali può avere sui bambini e sui ragazzi il distanziamento fisico protratto nel tempo in seguito all’emergenza sanitaria?

Gli allievi si trovano, il più delle volte, di fronte agli oggetti della conoscenza senza esserne soggetti attivi, quindi senza partecipare ai saperi. Quanto è importante recuperare a scuola lo spazio della soggettività?

La didattica a distanza è stata letteralmente un disastro. Nel senso che non si può insegnare e non si può apprendere davanti a uno schermo. Purtroppo gli studenti hanno perso oltre un anno di scuola, diciamolo chiaramente. Inutile promuoverli perché è passato il tempo: gli si doveva far ripetere l’anno. Tutti quanti abbiamo avuto dei guai, l’economia ha avuto dei guai, la biologia ha avuto dei guai con tutti questi morti… Beh, gli studenti avrebbero dovuto rifare l’anno scolastico. Promuoverli su che base, dopo che sono stati a scuola due o tre mesi al massimo, quando è andata bene? La didattica a distanza, inoltre, ha eliminato una dimensione fondamentale del moto giovanile. Che cos’è tipico dell’adolescenza? Separarsi dalla relazione protettiva e amorevole del mondo genitoriale, che è una relazione verticale padre-figlio, madre-figlio, per passare a quella dimensione orizzontale degli amici, dei compagni della stessa età, della stessa classe. Questo passaggio dalla verticalità all’orizzontalità dei rapporti d’amore, di odio, di relazione in generale, è essenziale. Lo sganciamento dal mondo genitoriale è necessario per abbandonare il codice materno a sfondo protettivo, perché l’amore genitoriale è incondizionato, quello orizzontale tra amici e compagni è condizionato e i ragazzi cominciano a imparare che non c’è un amore eterno e assoluto e assolutamente garantito, ma c’è un amore che si conquista attraverso, appunto, la qualità delle relazioni e con tutte le difficoltà che questa acquisizione comporta. Ora, la didattica a distanza ha creato un distanziamento che però non penso sia stato l’incipit di una carenza relazionale, perché questa carenza i ragazzi l’avevano già conosciuta con l’informatica. La vera distanza sociale è stata creata dai dispositivi digitali, dal comunicare attraverso un computer invece che vis-à-vis. E in questo caso io proporrei di non parlare di “distanziamento sociale”, ma di “distanziamento virale”, perché quello sociale è già da tempo che sta lavorando, mettendo i ragazzi in comunicazione attraverso lo schermo di un computer che alimenta uno stato di “solitudine di massa”.

Umberto Galimberti è filosofo, psicoanalista e docente universitario. Laureato in Filosofia nel 1965 con Emanuele Severino presso l’Università Cattolica di Milano, ha frequ

Umberto Galimberti è filosofo, psicoanalista e docente universitario. Laureato in Filosofia nel 1965 con Emanuele Severino presso l’Università Cattolica di Milano, ha frequentato l’Università di Basilea, dove è venuto a contatto con lo psichiatra e filosofo Karl Jaspers, di cui è diventato uno dei principali traduttori e divulgatori italiani. Nel 1976 è Professore incaricato di Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, quindi Professore ordinario di Filosofia della Storia nel 1999. Dal 2002 ha insegnato Psicologia generale, Psicologia dinamica, Filosofia morale. Nel 1985 è diventato membro ordinario dell’International Association for Analytical Psychology.Ha collaborato con “Il Sole 24 Ore” dal 1987 al 1995, anno in cui ha iniziato la collaborazione, a tutt’oggi attiva, con “la Repubblica”.Nel 2002 gli è stato assegnato il premio internazionale “Maestro e traditore della psicoanalisi” e, nel 2011, il premio Ignazio Silone per la cultura.

Per educare ci vogliono due condizioni: una oggettiva, perché le classi non possono essere fatte da trenta studenti ma solo da dodici, quindici al massimo, altrimenti non è possibile seguire i ragazzi uno a uno. I professori, poi, e qui arriviamo al punto soggettivo, devono essere carismatici, non c’è niente da fare, e devono essere empatici; e siccome l’empatia non la si impara – ce l’hai o non ce l’hai per natura – chi non ce l’ha secondo me non dovrebbe insegnare. Ci sono professori delle superiori che demotivano gli studenti e la demotivazione a quell’età ha delle conseguenze significative in termini psicopatologici, a partire dalla depressione… Nelle scuole superiori, inoltre, bisogna lasciar fuori i genitori. In molti casi i genitori non sono interessati alla formazione dei figli, sono interessati solo alla loro promozione, e quando vengono bocciati ricorrono al TAR. E i professori che cosa fanno? Per evitare complicazioni tendono a promuovere tutti gli studenti. Promuovere tutti significa non tener conto della meritocrazia e, soprattutto, demotivare gli studenti meritevoli perché questi sanno benissimo che – sia che studi sia che non studi – alla fine sarai sempre promosso. Ecco, tutto questo, secondo me, è il disastro della nostra scuola. Quindi, condizioni oggettive, come la riduzione del numero degli studenti in classe, e condizioni soggettive, legate alle abilità personali degli insegnanti. Tutti noi abbiamo studiato volentieri le materie degli insegnanti che ci avevano affascinato: è attraverso la sollecitazione di emozioni e sentimenti che i ragazzi vanno curati. Io abolirei nelle scuole superiori il ricevimento dei genitori, sostituendolo con l’ora di ricevimento con gli studenti, che sarebbe molto più utile… Tenendo conto anche che non bisogna proteggere i ragazzi all’infinito. Un ragazzo non deve sentirsi alle proprie spalle un genitore che lo difende. Ci sono dei problemi? Benissimo, lo studente si confronti direttamente con il professore; sta diventando adulto, che la smetta di avere i genitori alle spalle che lo tutelano, lasciandolo in un’infanzia eterna!

Tutti noi abbiamo studiato volentieri le materie degli insegnanti che ci hanno affascinato: è attraverso la sollecitazione di emozioni e sentimenti che i ragazzi vanno curati

Per un’educazione alla soggettività

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