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Il concetto di interlingua e la didattica
L’insegnante, come un navigante, si muove nel mare plurilingue della propria classe e ha bisogno di rispondere in modo comune, ma allo stesso tempo differenziato, ai bisogni di ciascun alunno, creando percorsi di apprendimento in grado di tenere insieme in modo costruttivo le differenze che emergono
Che cos’è l’interlingua?
Ogni sforzo di comunicazione verbale di un apprendente che si sta appropriando dell’italiano viene chiamato tecnicamente interlingua , cioè un vero e proprio sistema linguistico che guardato attentamente ci rivela le ipotesi transitorie che l’apprendente sta facendo rispetto alle regole grammaticali della lingua che sta imparando. Quelli che potremmo superficialmente classificare come errori nel parlato di un apprendente che sta imparando l’italiano sono in realtà preziose spie della grammatica dell’interlingua, ossia delle regole transitorie di cui l’apprendente si serve per produrre lingua in un determinato momento del suo percorso di apprendimento.
Le ricerche condotte nell’ambito della linguistica acquisizionale hanno rivelato che, pur nella varietà individuale dei percorsi di apprendimento, esistono delle sequenze fisse di acquisizione, cioè tappe per così dire obbligate, che tutti gli apprendenti seguono nello stesso ordine, anche se magari con tempi molto differenti l’uno dall’altro o con esiti finali più o meno avanzati.
Per esempio, tutti gli apprendenti all’inizio producono singole parole, cui ancora non è stata attribuita una classe morfologica, e formule, cioè moduli prefabbricati di linguaggio che vengono appresi come un tutt’uno e i cui componenti non vengono analizzati singolarmente nel loro rapporto tra forma e significato. Superata questa fase, gli apprendenti cominciano ad assegnare alle parole una classe morfologica, distinguendo per esempio i nomi dai verbi, e iniziano a utilizzare per ogni parola una forma base, cioè scelta come neutra tra le varie forme flesse presenti nell’input. Le interlingue evolvono successivamente in un continuum di varietà di apprendimento via via più “grammaticalizzate”, nelle quali le regole della lingua di arrivo emergono secondo traiettorie comuni, seppure con ampi margini di variabilità individuale.
Anche se gli apprendenti nel loro percorso di sviluppo linguistico seguono delle sequenze e delle strategie regolari e quindi prevedibili, non bisogna pensare che tutto ciò che si trova nell’interlingua sia prevedibile e sistematico. Lo sviluppo della grammatica è un processo graduale, che procede “a pelle di leopardo”.
Una struttura pertanto può comparire in alcuni contesti, ma non in altri. Non possiamo affermare “Oggi lo studente X ha imparato ad accordare i nomi con gli aggettivi”, perché tra la totale assenza di accordo nominale e l’accordo sempre corretto possono passare molti mesi, a volte anni, durante i quali l’accordo comparirà solo in certe strutture e non in altre, oppure, anche relativamente alle stesse strutture, l’accordo comparirà in modo più o meno frequente, secondo una logica probabilistica e non categorica.
Non è possibile quindi prevedere con assoluta certezza in quale direzione evolverà ciascun aspetto dell’interlingua di un apprendente: occorre sviluppare una sensibilità che permetta di capire, volta per volta, quali sono gli aspetti su cui l’apprendente sta focalizzando l’attenzione, i punti deboli del sistema , dove c’è fermento e probabile mutamento.
Il concetto di interlingua descritto sopra nasce all’interno delle ricerche acquisizionali in L2, ma ha chiaramente ricadute interessanti anche per gli studenti in età scolare di lingua madre italiana . L’italiano standard della scuola non ha parlanti nativi, ed è solo andando a scuola che lo si impara. Questo significa che in classe tutti gli studenti sono apprendenti dell’italiano della scuola come lingua seconda. Chiaramente le differenze tra varietà parlate dai giovani madrelingua e la lingua della scuola sono minime e riguardano strutture specifiche. Nel loro caso non c’è bisogno di insegnare tutto l’italiano, bensì di lavorare su alcune aree specifiche.
Il concetto di interlingua offre dunque ai docenti la possibilità di avere un primo sguardo comune sulle competenze linguistiche di classe , evitando stereotipate suddivisioni a priori sulla base della provenienza etnica, ma bensì differenziando a partire dall’osservazione del reale livello di competenza interlinguistica. L’intervento didattico che ne consegue è progettato proprio come supporto al naturale processo di acquisizione: l’insegnante ha la possibilità di differenziare gli interventi pur guidando la classe all’interno di un comune percorso di apprendimento linguistico.
Come applicare il concetto di interlingua alla didattica?
Poiché la lingua di un apprendente è un vero e proprio sistema , dotato di logica e coerenza interna, occorre accostarsi a esso con la stessa attenzione e lo stesso rispetto con cui un linguista si accosta a una lingua sconosciuta al fine di ricostruirne la grammatica, il senso, la logica (Pallotti 2005). In questo senso l’interlingua è una bussola che guida il docente nello scegliere di volta in volta la modalità di approcciarsi alle produzioni degli apprendenti e di strutturare l’intervento didattico.
Più in dettaglio l’interlingua sostiene la didattica per almeno tre aspetti:
1) innanzitutto aiuta a capire a che punto è lo studente nel suo percorso evolutivo e di cosa ha bisogno per progredire grammaticalmente;
2) secondariamente offre indicazioni sull’ordine da seguire nella presentazione delle strutture linguistiche;
3) infine propone strategie per una gradualità nella presentazione di una stessa struttura.
Rispetto al primo punto , il concetto di interlingua e il conseguente approccio acquisizionale inducono l’insegnante a mettersi dalla parte dell’apprendente , capire quali ipotesi sta formulando sul funzionamento della lingua, così da poter intervenire efficacemente con l’insegnamento confermandone le ipotesi, se giuste, oppure correggendole, se non lo sono. In altre parole è essenziale evitare di partire dalla prospettiva di chi, conoscendo la lingua d’arrivo, considera semplicemente errori tutte le deviazioni rispetto alla norma, ma piuttosto sviluppare gli strumenti per attribuire un valore agli errori degli studenti, evitando di limitarsi a registrarne la presenza, ma piuttosto intervenendo didatticamente sulle ipotesi fatte rispetto al funzionamento della lingua d’arrivo.
Riguardo al secondo punto , l’interlingua offre indicazioni abbastanza precise su quali strutture si apprendano prima e quali dopo, permettendo innanzitutto una globale riorganizzazione del sillabo nel rispetto del naturale percorso di acquisizione. E’ fatto noto e condiviso che il tema dell’approccio graduale alla grammatica non sia certo né semplice né banale. Alcune strutture molto frequenti, perciò molto utili, sono anche complesse e possono essere apprese solo molto tardi. Pertanto, ci si trova spesso di fronte al problema di dover stabilire se insegnare una struttura perché è utile oppure non insegnarla perché è difficile. Anche in questi casi l’approccio acquisizionale ci supporta. Innanzitutto è essenziale distinguere fra input per la comprensione e input per la produzione: se una struttura è difficile, questo non significa che essa non vada presentata anche ai livelli più bassi di competenza, piuttosto non si deve pretendere che gli apprendenti la usino in modo produttivo e accurato. Certe strutture possono essere dunque presenti nel materiale linguistico di stimolo, ma su di esse non è necessario richiedere attività di produzione, oppure, nel caso in cui questo avvenga, sarà opportuno tollerare formulazioni non corrette. In altre parole, non tutti gli errori possono essere corretti subito, ma l’insegnante concentra la correzione su quelle forme scorrette che l’apprendente è pronto a modificare e integrare nel suo sistema interlinguistico. Una ulteriore possibilità è data dall’insegnare, quando è possibile, le forme corrette all’interno di formule fisse da imparare a memoria. Tali formule, inizialmente apprese con modalità automatica, diventeranno materiale utile, al momento opportuno, per un’analisi da parte dell’apprendente e un conseguente reimpiego produttivo.
Infine, se apprendere una struttura grammaticale implica almeno quattro passaggi:
- accorgersi della struttura,
- analizzarla e capirla,
- usarla in alcuni contesti,
- usarla in contesti spontanei e innovativi,
anche nell’insegnamento sarà importante accompagnare in modo analogo l’apprendente. Per esempio, rispetto a uno stesso obiettivo, per uno studente di livello iniziale sarà utile accorgersi dell’esistenza di una struttura, per un altro, già consapevole della presenza di tale struttura, sarà utile fare qualche ipotesi sul suo funzionamento, per un altro ancora, che ha già formulato le proprie ipotesi, sarà proficuo fissarle e controllarle, e infine per chi ha cominciato ad acquisire la struttura in questione si tratterà di automatizzarla e di renderne più veloce e accurato l’impiego.
Pertanto l’insegnante, a seconda del livello degli studenti e della struttura in questione, può agire più efficacemente su fasi diverse del processo di apprendimento, concentrandosi su ciò che è utile per l’apprendente in quel momento, evitando di richiedere un uso accurato delle strutture per cui non è ancora pronto.
Oltre a ciò, è bene ricordare come la ricerca acquisizionale dimostri che alcune strutture complesse, come ad esempio il passato prossimo o l’uso del sistema pronominale, non sono dal punto di vista dell’apprendimento linguistico un’unica “regola” da scoprire, ma piuttosto un insieme di tante piccole scoperte che si spalmano su diversi livelli di apprendimento. In questi casi è più utile riprendere ciclicamente nel tempo l’argomento grammaticale, approfondendo di volta in volta aspetti più avanzati della regola, piuttosto che presentare tutti gli aspetti di una struttura insieme, come avviene in genere nelle grammatiche normative.
Secondo quanto appena descritto, risulta evidente che l’insegnamento sarà tanto più efficace, quando più capace di rispettare il naturale processo di acquisizione di ciascuno studente. Particolarmente utile in tal senso è l’approccio didattico per task (per una presentazione dettagliata vedi post di ottobre; cfr. www.insegnareconitask.it ). L’insegnante, impiegando come stimolo iniziale delle attività comunicative, i task appunto, offre agli apprendenti l’occasione di utilizzare, all’interno di un’attività comune per tutta la classe, le risorse linguistiche a disposizione di ciascuno per trasmettere un determinato messaggio, oltre che mostrare quale sia il livello di sviluppo linguistico individuale. Nella fase successiva di riflessione sulla lingua, l’insegnante interviene con un certo grado di individualizzazione, focalizzando l’attenzione su quegli aspetti linguistici funzionali allo svolgimento del compito per cui ciascun apprendente è pronto, arrivando così ad armonizzare la riflessione sulle forme grammaticali con il rispetto delle naturali sequenze di apprendimento.
Per saperne di più
Pallotti G., 2005, “Le ricadute didattiche delle ricerche sull’interlingua”, in E. Jafrancesco (a cura di), L’acquisizione dell’italiano L2 da parte di immigrati adulti , Atene, Edilingua.
Comune di Reggio Emilia, Università di Modena e Reggio Emilia, Progetto Osservare l’Interlingua