Contenuto riservato agli abbonati io+

Le scelte della mia scuola multiculturale – Ripartire dai più piccoli

La nostra scuola, forse, non è pienamente attrezzata per far fronte ai cambiamenti dei “nuovi alunni stranieri”. Come educare con lungimiranza? Una proposta di Elisabetta Micciarelli. Aspettando il convegno “A scuola nessuno è straniero”. 

di Redazione GiuntiScuola29 febbraio 20165 minuti di lettura
Le scelte della mia scuola multiculturale – Ripartire dai più piccoli | Giunti Scuola

In occasione del convegno A scuola nessuno è straniero. La scuola multiculturale nel tempo delle scelte (18 marzo, Padova) abbiamo chiesto ad alcuni amici di "Sesamo" (insegnanti, educatori, dirigenti scolastici) di raccontarci una delle scelte che la scuola multiculturale si trova a fare ogni giorno. Oggi diamo voce a Elisabetta Micciarelli, dirigente scolastico.

La difficoltà a educare con lungimiranza

La nostra scuola, forse, non è pienamente attrezzata per far fronte ai cambiamenti dei “nuovi alunni stranieri” e soprattutto per garantirne a tutti pari opportunità di successo formativo. Un’affermazione tutta da argomentare affinché non venga interpretata come una responsabilità legata solo all’eventuale inadeguatezza del corpo insegnante, quanto piuttosto alla difficoltà del sistema scolastico a tenere il passo con i cambiamenti sociali e alla capacità di “educare con lungimiranza”. Per quanto impegno si possa profondere, si ha la sensazione che l’insegnamento rincorra i processi di trasformazione sociale rimanendo però sempre “un passo indietro ”: la scuola è costretta a muoversi in una logica perennemente emergenziale.
Negli anni che sono seguiti ai primi inserimenti di bambini, per lo più ricongiunti, (nelle Marche siamo intorno alla fine degli anni ’90) tutto lo sforzo degli insegnanti era rivolto a far sì che acquisissero la lingua italiana prima possibile. Spesso si responsabilizzavano le famiglie poiché, in casa, si continuava a parlare la lingua d’origine, fatto ritenuto limitante e ostativo all’apprendimento dell’italiano. Ancora, una volta superato il gap della comprensione della seconda lingua relativa alla prima comunicazione, ingenuamente si proponevano immediatamente i contenuti disciplinari . Ci è voluto ancora del tempo per introdurre nel lessico dei docenti e nelle pratiche didattiche la distinzione tra lingua della comunicazione, del “qui ed ora” e la lingua per lo studio.

E intanto, tutto cambia

Mentre la scuola, con grande sforzo e diversi incidenti di percorso cercava di attrezzarsi per rispondere a queste esigenze, lo scenario degli studenti in classe cambiava: cresceva il numero di alunni nati in Italia e diminuivano i ricongiungimenti e i NAI. La rapidità e il cambiamento veloce dei flussi migratori cambiava. Cambia la società, così come cambiava la scuola: le aule e le condizioni dell’insegnamento in questi anni sono profondamente diversi, ma debbono continuamente adeguarsi, per assumere, sempre più, una visione prospettica . Da ambienti monolingui o monoetnici in cui ci trovavamo a vivere fino a non più tardi di 15 anni fa ad oggi si sono verificate trasformazioni importanti che esigono altrettante trasformazioni.
Che cosa può fare la scuola per essere “adeguata” soprattutto in una visione a lungo termine, per essere una scuola di tutti e per tutti con un ampio respiro universalista capace di ricalibrarsi rispetto alle nuove esigenze? È sufficiente una rivisitazione di metodi, strumenti e interventi didattici e organizzativi per rispondere alle “nuove” esigenze o serve uno sguardo pedagogico radicalmente diverso?

Le attenzioni ai più piccoli

La dirigenza di un Istituto comprensivo rappresenta, in questo contesto, un osservatorio privilegiato. Da questo angolo e visuale c’è modo di “farsi carico” e di osservare il percorso scolastico di bambini che frequentano un ciclo scolastico di 11 anni. Entrano a tre anni nella scuola dell’infanzia (alcuni hanno anche frequentato i nidi comunali) e terminano adolescenti con l’esame di Stato della secondaria di I grado.
Nonostante tutte le attenzioni e gli accorgimenti messi in atto, la distanza tra gli esiti scolastici degli alunni italiani e “stranieri” rappresenta ancora una forte criticità . Fino a un recente passato, l’urgenza del fenomeno aveva costretto la stragrande maggioranza delle scuole a mobilitarsi e a organizzarsi individuando un docente referente per l’intercultura, nominare una commissione di accoglienza che prevedesse anche la partecipazione del personale di segreteria, prevedere l’inserimento dei nuovi alunni in classe con percorsi modulati, stabilire criteri di valutazione piani educativi personalizzati….

Se possiamo ritenere che questa sensibilità diffusa e orientata agli alunni neoinseriti, si sia – almeno in parte, radicata – rimane ora da chiedersi quali risposte dobbiamo prevedere per i nuovi scenari in forte cambiamento. A partire da alcune domande: Un bambino nato in Italia da una famiglia straniera, trova una sensibilità e una cultura dell’accoglienza capace di leggere i suoi “nuovi” bisogni? I suoi saperi e le sue capacità (ad esempio, quelle linguistiche in L1) sono riconosciuti e valorizzati? I suoi progressi di apprendimento dell’italiano sono osservati con attenzione e accompagnati con cura?
Una scelta cruciale della scuola è oggi quella di moltiplicare le attenzioni per i più piccoli perché un cammino di inclusione comincia dai suoi primi passi.

Elisabetta Micciarelli, dirigente scolastico

Dove trovi questo contenuto

Potrebbero interessarti