Virtù dell’errore

Le tecnologie peggiorano l’apprendimento? Che cosa dice veramente il rapporto OCSE

Bambini e sessualità, un avvicinamento troppo precoce?

Impariamo a rilassarci

Tutti insieme nel gruppo classe

Alleniamo la concentrazione

Perché giocare piace, studiare un po’ meno? Certamente può fare la differenza il modo con cui le due attività sono strutturate e pensate. Tipicamente il gioco è più libero ed è inteso come svago, mentre lo studio è maggiormente vincolato a temi e contenuti specifici, spesso non scelti, e quindi sostanzialmente assunto come impegno. Tuttavia, a distinguere i due non è solo la connotazione, ma anche l’insieme di emozioni che innescano.

Rabbia e paura o ricerca e gioco?

Un avvicinamento possibile?

Studiare come per gioco potrebbe tradursi per esempio in pratiche quali: <ul><li style="text-align: justify;">porsi domande intriganti fin dall’inizio (per esempio: come è fatto..., come sarà andata a finire...); </li><li style="text-align: justify;">leggere il titolo del paragrafo e provare a rispondere al tema sollevato sulla base delle proprie conoscenze (da verificare poi...); </li><li style="text-align: justify;">tenere un “diario di studio” simile a un diario di viaggio, che preveda riflessioni mosse da “oggi ho imparato che...” o anche “credevo che..., invece...”, “adesso so fare...”, declinabili in base alle età e alle preferenze;</li><li style="text-align: justify;">stabilire dei limiti (temporali o di contenuti) entro i quali è possibile/opportuno studiare, che aiutano nella pianificazione; </li><li style="text-align: justify;">entrare in modo graduale e “integrato” nelle sessioni di studio prevedendo all’inizio un warming-up da personalizzare, per poi immergersi nel pieno dell’attività.</li></ul>

Studiare come per gioco può tradursi in pratiche quali porsi domande intriganti, tenere un “diario di studio”, entrare in modo graduale nelle sessioni di studio

La contrapposizione studio/impegno da un lato e gioco/svago dall’altro parrebbe sostenuta dalla definizione di “gioco” come “attività svolta con l’obiettivo di divertirsi, accompagnata da entusiasmo, coinvolgimento e interazione con altri giocatori e con l’attività” (Van Vleet, Feeney, 2015) e si amplificherebbe nel tempo, per cui se alla scuola dell’infanzia e forse anche alla primaria si potrebbe anche imparare giocando, ciò sembrerebbe meno possibile in seguito (Koeners, Francis, 2020). Per avvicinare i due mondi (studio e gioco), un primo livello relativamente facile sui cui agire riguarderebbe gli obiettivi. Per sua natura, il gioco ha obiettivi più liberi e comunque la loro mancata realizzazione non ha particolari conseguenze: conta giocare. Viceversa, lo studio ha come chiaro focus imparare e sapere. Non riuscire in questo genera immediata frustrazione e insoddisfazione e ha spesso ricadute pratiche in termini di profitto. Si tratterebbe pertanto di rimodulare le attività di studio in modo da favorire obiettivi di padronanza (conta il piacere di imparare, esplorare, conoscere cose nuove), anziché di dimostrazione (importa far vedere che si sa e si riesce bene nelle verifiche; Dweck, 2016).

<img filer_id="232539" src="/d/filer/sharing/1618555550/232539/" title="" align="" thumb_option="" original_image="false" style="height: 273px; width: 380px; margin: 10px 15px; float: right;" data-cke-saved-src="/d/filer/sharing/1618555550/232539/">Secondo Panksepp (2005) è possi- bile distinguere sette diversi sistemi, o circuiti emotivi primari, fra loro interconnessi, che inducono stati motivazionali e sono legati al rilascio di specifici ormoni. Alcuni di questi, riportati per primi nella Tabella 1, paiono particolarmente legati all’apprendimento e quindi allo studio. Si tratta della spinta alla ricerca, alla conoscenza, al nuovo e a “mettersi in gioco”, a cui si possono accompagnare la rabbia (che porterebbe ad andare oltre le percepite difficoltà) e la paura (che invece potrebbe far desistere ed evitare). È importante osservare che si tratta di circuiti primari, ovvero che andranno a influire su aspetti di natura cognitiva quali obiettivi, aspettative, preferenze, traducendosi in comportamenti più o meno abituali. Pertanto, tenendo conto della loro esistenza, risulterebbe opportuno favorire la costruzione di rappresentazioni di sé, percezioni legate al compito e atteggiamenti che possano farli confluire nella spinta ad apprendere (gioiosa e giocosa) piuttosto che nel ritiro dal compito.

Dweck C. (2016), «What Having a “Growth Mindset” Actually Means», Harvard Business Review, 13, 213-226. Koeners M.P., Francis J. (2020), «The Physiology of Play: Potential Relevance for Higher Education», International Journal of Play, 9, 143-159. doi: 10.1080/21594937.2020.1720128 Panksepp J. (2005), «Affective Consciousness: Core Emotional Feelings in Animals and Humans», Consciousness and Cognition, 14(1), 30-80. doi: 10.1016/j.concog.2004.10.004 Van Vleet M., Feeney B.C. (2015), «Young at Heart: A Perspective for Advancing Research on Play in Adulthood», Perspectives on Psychological Science, 10(5), 639-645. doi: 10.1177/1745691615596789

Sperimentarsi e costruire Se il gioco è “costruzione di sé”, lo studio è “costruzione delle proprie conoscenze”. Entrambi costituiscono forme di avanzamento e crescita che possono procedere congiuntamente, spesso con senso di sfida e soddisfazione, ma anche con eventuali momenti di rabbia e di paura, che la prospettiva giocosa potrebbe aiutare ad affrontare e superare. Possiamo dunque augurare a tutti un buono studio giocoso!

Imparare giocando?

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