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Motivazione, strategie di studio, attenzione in classe
Le riflessioni e i suggerimenti di tre tra i massimi esperti dell’apprendimento su come motivare allo studio e stimolare l’attenzione delle allieve e degli allievi.

Insegnanti e genitori testimoniano negli allievi una progressiva perdita di interesse per i contenuti dell’apprendimento e in definitiva per lo studio, in particolare dopo gli eventi degli ultimi tre anni… Come aiutare i bambini e le bambine a trovare motivazione nello studio?
Rossana De Beni
Non sarei così pessimista su tutta la linea, ma convengo che è frequente che l’alunno sia svogliato e che la DaD, priva degli incentivi sociali e contestuali, abbia accentuato forme di disinteresse e di apatia in certi alunni. Purtroppo ci sono, nei programmi di insegnamento, temi lontani dal loro mondo e dai loro interessi e che risultano pertanto faticosi.
Il docente non è tenuto a trasformarsi in un clown per rendere immediatamente piacevoli questi temi, ma se non altro può renderli accessibili all’alunno, attenuando una parte delle sue preoccupazioni. L’insegnante può essere chiaro, sistematico e creare situazioni di sfida ottimale, in cui il bambino supera le paure per un tema sconosciuto, si confronta con se stesso. Il problema è lo scoglio dell’attrito iniziale, per cui può essere necessario partire dalla motivazione estrinseca (legata però a questa sfida e non alla competizione o al premio), confidando di arrivare prima o dopo alla motivazione intrinseca, per cui il tema è per se stesso interessante e la voglia di conoscerlo meglio induce un atteggiamento positivo verso lo studio.
L’insegnante deve anche tenere conto dell’area prossimale di apprendimento (e di sviluppo) dell’alunno. Se l’argomento da studiare è prossimo a quanto il bambino sa già (e le competenze richieste sono in gran parte possedute), è più facile che l’alunno senta che il compito è alla sua portata. Su questa sensazione di prossimità influisce molto il contesto sociale: l’allievo deve percepire come alleati l’insegnante e la classe. Sentendosi capace e avvertendo che è un impegno condiviso, avrà la percezione che l’argomento è interessante e che può farcela ad apprenderlo.
Cesare Cornoldi
Distinguerei fra gli interessi e i temi di studio che nascono spontaneamente nel bambino e quelli che invece fanno parte del programma di insegnamento e che in qualche modo sono imposti dall’esterno. L’osservazione quotidiana del fatto che l’allievo abbia suoi interessi e abbia voglia di affrontarli e che la cosa non sia cambiata negli ultimi anni ci conforta sulle potenzialità di apprendimento dei bambini di oggi, ma ci pone la sfida di come trasferire questa motivazione anche ai temi proposti dalla scuola. Come suggerito dall’intervento di Rossana, vi sono nel bambino resistenze che nascono anche dalla scarsa comprensione della natura e dell’importanza degli argomenti da studiare. Questi temi sono al di là dell’area prossimale di apprendimento del bambino e, se troppo difficili, anche dell’area prossimale di sviluppo cognitivo, ma possono essere in qualche modo avvicinati al bambino creando le premesse conoscitive, con informazioni che stanno alla base, con esempi pratici della vita di tutti i giorni relativi agli argomenti da studiare, con organizzatori anticipati, con quesiti che creano curiosità. Sono comunque d’accordo con Rossana che non c’è niente di male nello sfruttare la motivazione estrinseca evitando di pensare che essa consista solo nella competizione o nel rinforzo (che necessariamente si portano dietro i fattori demotivanti della non-vittoria e del mancato premio ottimale). Se anche a noi adulti succede di andare a una conferenza per il piacere di stare in compagnia o di produrre qualcosa perché ci piace per ragioni estetiche estrinseche al contenuto, perché dovremmo avere problemi nell’accettare che il bambino divenga interessato allo studio della stratosfera perché lo si fa in compagnia o si può disegnare un razzo a colori?
Alessandro Antonietti
La domanda mette a tema un problema che si avverte con più urgenza nella scuola secondaria ma che da vari anni interessa anche la scuola primaria. La mia impressione è che sia in questione l’impostazione di fondo dell’istruzione scolastica, che nelle sue linee di base è immutata da decenni, mentre il mondo e la mente delle persone stanno vivendo profondi cambiamenti nel modo di costruire e accedere alla conoscenza. È probabile che nel futuro occorrerà disegnare una scuola molto diversa. Però intanto gli insegnanti (e i genitori) devono vedersela con la scuola così come adesso è configurata e trovare modi adeguati per motivare gli studenti a seguire i percorsi di apprendimento che per loro vengono progettati. Sono d’accordo con Rossana che la strada da seguire non sia quella degli “effetti speciali” da creare in classe. Penso che la sfida sia quella di andare a recuperare i motivi essenziali per cui le giovani generazioni debbano impadronirsi oggi della matematica, della storia, della comunicazione linguistica e così via. Una volta individuate le esigenze cui le discipline scolastiche possono dare una risposta e convinti gli studenti che esse possono dare gli strumenti che servono per capire la realtà che stanno vivendo, muoversi in essa e soddisfare i loro bisogni, si possono trovare gli approcci metodologici più idonei. A questo riguardo le scienze dell’apprendimento, inclusa la psicologia, hanno molto da offrire. Noto però che vi è un ridotto interesse ad aggiornare i docenti circa le impostazioni metodologiche di base, mentre le proposte formative sono tendenzialmente focalizzate o sulle tecniche da adottare o su temi e problematiche particolari. Un diverso investimento formativo potrebbe aiutare la scuola ad affrontare questo critico momento.
"I bambini sono più strategici di quanto si creda, soprattutto in ambiti che interessano, motivano e sono familiari: è utile creare interesse e familiarità anche per gli ambiti più complessi"
Quali accortezze si potrebbero prendere in considerazione per aiutare i bambini e le bambine ad acquisire delle buone strategie di studio? Quali strategie proporre loro? Ci sono strategie più efficaci di altre?
Cesare Cornoldi
Credo che la distinzione fra argomenti per se stessi motivanti e argomenti che si devono studiare valga anche per capire perché talvolta l’alunno usi spontaneamente e con naturalezza certe strategie e in altri casi invece gli sia richiesto uno sforzo esplicito. Ma non penso che il bambino possa tout court trasferire a questi ultimi casi le modalità strategiche più naturali. L’alunno deve qui implementare consapevolmente strategie più “costose” che lo aiuteranno a superare gli scogli che incontrerà.. È questo il passaggio critico, dalla memorizzazione “incidentale” alla memorizzazione intenzionale, che viene richiesto al bambino, soprattutto a partire dalla 3 a primaria. Per quanto il bambino possa avere intuito le caratteristiche di certe strategie (le più efficaci sono legate alla creazione di aspettative concettuali, all’elaborazione e organizzazione del contenuto, alla pratica del ripasso), il loro uso intelligente richiede un accompagnamento da parte dell’adulto (o di un ragazzo più esperto) e l’esperienza ripetuta con l’uso monitorato della strategia. Qui la scuola gioca un ruolo fondamentale.
Alessandro Antonietti
Allacciandomi a quanto dice Cesare, mi sembra importante il collegamento, che deve essere accompagnato dagli insegnanti, tra strategie spontanee e strategie esplicite. I bambini sono “strategici” in tantissime situazioni extrascolastiche, come per esempio nei giochi o nello sport, ma anche nelle relazioni sociali tra pari. È un peccato che non siano altrettanto strategici quando devono seguire le attività scolastiche. Un bambino in genere non ha difficoltà a capire uno spot pubblicitario o un video, che sono forme di comunicazione estremamente compattate in cui sono presenti tanti elementi impliciti e che perciò richiedono di compiere a livello cognitivo anticipazioni, integrazioni di informazioni e inferenze abbastanza complesse. Se il bambino riesce a fare tutto ciò, perché non potrebbe applicare quei processi mentali quando è di fronte a un testo? Una strada possibile è portarlo a diventare consapevole di come si gestisce quando si trova in situazioni in cui non incontra difficoltà e aiutarlo a trasferirle all’ambiente scolastico. Per esempio, si può partire da “Come fai a prepararti per una partita impegnativa di pallavolo?” e vedere quali strategie (anche molto semplici, come “Mi ripeto mentalmente le istruzioni dell’allenatore”) possono essere applicate allo studio. In genere gli studenti poi arrivano anche da soli a compiere altri collegamenti tra ambito extrascolastico e scolastico.
Rossana De Beni
Sono d’accordo con Cesare e Alessandro sul fatto che i bambini sono molto più strategici di quanto possa sembrare. Sono però strategici solo in ambiti che interessano, motivano e sono familiari (nella loro zona di comfort). Proviamo a metterli in queste condizioni anche per gli ambiti nuovi e più complessi, creando anche per essi, oltre che quell’atteggiamento motivazionale estrinseco di cui ho già parlato, interessi e familiarità! Se vogliamo passare a una riflessione sulle strategie che più specificamente possono essere stimolate, già Cesare e Alessandro hanno dato dei suggerimenti utili. Io vorrei in particolare ricordare l’importanza delle strategie immaginative e soprattutto di quelle che hanno una forte valenza visiva e spaziale, per le quali è stata dimostrata l’utilità già dall’antichità. Temo infatti che si dia troppa importanza alle strategie verbali e che questo vada a danneggiare in modo particolare i bambini che hanno difficoltà con il linguaggio.
Sarebbe utile alternare momenti che richiedano agli alunni grande attenzione e massimo impegno ad altri in cui lasciarli con attività libere, autodeterminate, laboratoriali, socialmente mediate.
Tanti insegnanti lamentano la fatica di mantenere alta l’attenzione degli allievi durante le ore di lezione. Che cosa possono fare i docenti per migliorare la qualità dell’attenzione e della concentrazione in classe?
Alessandro Antonietti
Il problema mi pare sia duplice: attirare l’attenzione per indirizzarla su ciò che deve essere messo a fuoco in quel momento e riuscire a far sì che l’attenzione sia mantenuta per il tempo necessario a svolgere il compito richiesto. Per entrambi gli obiettivi occorre fare i conti con un ambiente esterno che invita a distribuire l’attenzione su più aspetti – e questo vale anche per gli adulti, basti pensare all’uso del cellulare – e in cui vi è un rapido avvicendarsi di informazioni (vi è mai capitato di vedere trasmissioni televisive del passato e percepire come esse siano oggi, per noi, lente?). Come detto dai colleghi in precedenza, occorre trovare quell’area in cui si possa “agganciare” lo studente e, partendo da lì, farlo progredire. È inutile richiedergli dei tempi di attenzione che non riesce a reggere, perché, raggiunto il suo limite massimo di concentrazione, lo “perderemo”. Saranno allora da predisporre brevi unità di lavoro compatibili con la sua iniziale finestra dell’attenzione. La durata e la complessità di queste unità potranno poi gradualmente crescere, perché, se da un lato dobbiamo adeguarci ai limiti cognitivi di partenza degli allievi, dall’altro non dobbiamo rassegnarci a essi ma stimolare il loro superamento.
Rossana De Beni
È vero che l’attenzione è di tanti tipi. Giustamente Alessandro commenta in modo particolare il fatto che l’ambiente esterno tipicamente invita a distribuire l’attenzione su più aspetti. Poiché questo è inevitabile, l’attenzione distribuita è importante e va sviluppata. Ma, come è ben noto, essa produce stanchezza, dispersione e superficialità. In particolare, essa rende difficile l’uso dell’attenzione focalizzata e per questo bisogna trovare le chiavi per promuoverla e svilupparla.
Il riferimento alla presenza di innegabili deficit attentivi non deve tuttavia far pensare che l’attenzione scarsa di alcuni bambini sia una condizione irreversibile, perché essa può essere incrementata. Sono d’accordo con Alessandro che una richiesta graduale può aiutare i bambini a sviluppare con il tempo una buona capacità di attenzione focalizzata. Spesso di fatto gli allievi posseggono le premesse per fare il salto di qualità. Per esempio, capiscono che una situazione è complessa e richiederebbe più attenzione, ma poi non mettono in atto quello che avevano intuito essere necessario. Inoltre, come già si diceva, sanno stare attenti quando la cosa piace loro. Passare da “faccio più attenzione a quello che mi piace di più” a “faccio attenzione a quello che mi impegna maggiormente” è una chiave importante non solo per l’infanzia, ma anche per l’età adulta, soprattutto nell’ottica della longevità, perché aiuta a sapersi impegnare quando è necessario.
Cesare Cornoldi
Concordo con i colleghi nel fatto che la mancanza di attenzione non è né una condizione “tutto-o-niente”, né è irrimediabile. La mia esperienza mi mostra che i bambini, anche quelli più disattenti, non solo sono in grado di essere attenti quando interessati, ma anche risentono dei fattori contestuali. Fra questi fattori ritengo di notevole importanza anche la condizione psicofisica e la stanchezza. La quantità di ore di lavoro mentale richiesta agli allievi durante il normale orario scolastico è elevata e, a essa, qualche volta si aggiunge la necessità di lavoro a casa. Questo è molto impegnativo per tutti i bambini e può produrre sia disattenzione, sia tendenza a lavorare a basso impegno. La gradualità induce familiarità, confidenza, percezione di potercela fare, ma mi domando anche se non sarebbe possibile distinguere per gli alunni momenti che richiedono a scuola grande attenzione e massimo impegno, per far sperimentare loro cosa significa lavorare con il motore a massima potenza e far apprendere le cose più importanti e complesse, e invece non incalzarli negli altri momenti, lasciandoli con attività libere, autodeterminate, laboratoriali, socialmente mediate.