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Il bisogno di una giusta cura
Nascere è venire alla vita. L’atto vitale del venire al mondo non è qualcosa di compiuto, è solo l’inizio; perché nascere è essere chiamati alla cura della vita. La cura è cosa essenziale per la vita umana

Tutti gli esseri umani hanno necessità di ricevere e di dare cura, poiché non si è in grado da soli di soddisfare tutte le condizioni necessarie alla vita; la cura costituisce, dunque, una risposta necessaria alla condizione umana di forte dipendenza da altri. Avere cura della vita è fare in modo che il tempo dell’esserci non sia solo ciò che capita, ciò che patiamo per il nostro essere condizionati dal mondo, ma ciò che risponde al desiderio di una vita con senso. La cura è la fabbrica dell’essere. Noi siamo i gesti di cura ricevuti e i gesti di cura mancati, e diventiamo quello che siamo in relazione a quello di cui abbiamo cura. Se abbiamo cura di certe idee, i modi del pensare saranno modellati da questo lavoro della mente; se ci prendiamo cura di certe cose, sarà l’esperienza di quelle cose e del modo di stare in relazione a esse a strutturare la nostra essenza; se ci prendiamo cura di certe persone quello che accade nello scambio relazionale con l’altro diverrà parte di noi. Heidegger distingue due modi di interpretare la pratica di cura: la cura come “occuparsi e preoccuparsi di” e la cura come “premura e devozione” (Heidegger, 1976); questa distinzione è interessante dal punto di vista pedagogico.
Occuparsi e preoccuparsi
L’occuparsi e il preoccuparsi della nostra vita consiste nel prendersi cura sia del nostro corpo, procurandoci il nutrimento e assicurandoci il riposo, sia delle relazioni che ci connettono agli altri. Questo modo della cura sta per l’essere umano nell’ordine della necessità, nel senso che il preoccuparsi di sé, degli altri e del mondo è una mossa esistenziale obbligata conseguente alla condizione ontologica della mancanza propria dell’essere umano. Quell’ente che noi siamo realizza il suo proprio poter essere nella misura in cui si attiva nel costruire un mondo (di cose, di idee, di affetti, di relazioni) nel quale dar forma alla sua esistenza. La cura come “occuparsi e preoccuparsi”, in quanto “cura dell’essere per la propria durata e conservazione” (Lévinas, 1997) dice l’irrevocabilità del compito dell’essere umano di doversi sempre preoccupare di qualcosa conseguente al fatto che l’esserci è costantemente esposto al nulla.
Premura e devozione
Oltre al prendersi cura di sé, c’è l’aver cura come premura di dare compimento al proprio divenire possibile; è quell’aver cura che scaturisce dallo stare in ascolto del proprio desiderio di divenire pienamente quello che si può essere dando forma alla propria originale presenza nel mondo. È soprattutto questo secondo concetto della cura a costituire il riferimento del discorso pedagogico. Noi siamo esseri incompiuti, con il compito di dare forma a quel cammino nel tempo che è la vita. Non che il tempo della vita, se di essa manchiamo di avere cura, non assuma una forma. Ma lasciare che il nostro tempo prenda forma indipendentemente da un progetto di vita è un modo di essere inautentico, quello che “accade per lo più” (Heidegger, 1976) e “niente può svilire e umiliare l’uomo più che essere mosso non si sa da cosa, non si sa da chi, essere mosso da qualcosa al di fuori di sé” (Zambrano, 2000). Quando, invece, ci si rapporta deliberatamente alle proprie possibilità esistentive, assumendo la responsabilità di dare a esse consistenza attuativa, allora si sta in un rapporto di autenticità col tempo: è così che l’esistenza diventa un tempo vivo. “Premura” e “devozione” testimoniano attenzione responsabile al tempo della vita, è aver cura delle possibilità esistentive che autenticano l’esserci con gli altri nel mondo. Poiché in questo difficile lavoro del vivere che deve misurarsi con un mare di incertezze il nostro divenire è mosso dalla ricerca di ciò che rende la vita un tempo buono in cui fare esperienza del piacere dell’esserci, quello di cui tutti necessitiamo è una buona cura. Fondamentale è dunque la domanda che pone Socrate: In che cosa consiste una giusta cura?
Una giusta cura
Una giusta cura è quella che: risponde ai bisogni vitali; procura quanto è necessario a nutrire, conservare e proteggere la vita; coltiva le possibilità dell’esserci; ripara l’esserci quando il corpo o l’anima si ammala. Una giusta cura è quella che si assume la responsabilità di ogni unità vivente e dell’insieme in cui accade la vita: è cura di sé, degli altri, della natura in cui veniamo a essere, del mondo che costruiamo, e del possibile che ancor non c’è. Poiché la cura è una pratica, per definire la giusta cura è necessario indicare i modi di essere che sono essenziali.
a) Ricettività
La ricettività consente di avvertire gli appelli dell’altro, i segnali che ci invia. Per essere ricettivo occorre innanzitutto saper attivare una profonda capacità di ascolto, necessaria a comprendere ciò che l’altro cerca di comunicare. Chi-ha-cura è in grado di cogliere eventuali segnali del desiderio di sottrarsi alla relazione di cura, sia quando l’altro non è in grado di comunicare le sue sensazioni e suoi pensieri (vedi il caso di un bambino molto piccolo) sia quando l’altro non trova il modo per comunicare il suo sentire.
b) Responsività
Essere responsivi significa rispondere in modo adeguato e pronto agli appelli dell’altro. La responsività implica una presenza attiva e vigile supportata dalla capacità di dislocare l’attenzione dalla propria realtà a quella dell’altro, riconoscendo la primarietà anche temporanea dei suoi bisogni e delle direzioni del suo desiderio. c) Impegno cognitivo La pratica di cura è azione complessa, perché capire come facilitare il divenire della vita nelle sue forme migliori richiede un pensare continuo, che osserva il reale così come accade, che non si ferma all’evidenza immediata ma attiva un’ermeneutica profonda dell’esperienza, che immagina mondi possibili e progetta l’agire in modo da attuare quello che il reale chiede. Il pensare della cura non è un pensare geometrico e sistematico, ma un pensare sensibile, al servizio della ricerca della sapienza dell’esserci.
d) Empatia
Quando si è capaci di empatia accade che l’esperienza di altri, quindi ciò che non abbiamo vissuto e che non vivremo mai, diventi elemento della nostra esperienza. Nella relazione empatica l’apertura all’altro non è mai fusione affettiva o sconfinamento, ma ascolto partecipe che salvaguarda l’alterità dell’altro, la sua irripetibile singolarità.
e) Attenzione
Per saper aver cura occorre essere capaci di attenzione all’altro. L’attenzione che ha cura consiste nel saper con-centrare il proprio sguardo sull’altro così da poter cogliere il suo originale modo di venire alla presenza. La capacità di attenzione è efficace se è continuata nel tempo, perché solo in questo caso consente di intervenire quando e nel modo che è opportuno.
f) Non intrusività
Salvaguardare la trascendenza dell’altro, ossia incontrarlo sempre stando in ritardo rispetto al proprio sé, significa essere capaci di attivare una forma di sollecitudine che ha la qualità di una presenza sintonizzata e non intrusiva. Significa farsi attento al percorso di crescita dell’altro, preoccuparsi di proteggerlo e di sostenerlo, avendo considerazione e rispetto del suo modo di essere e di pensare.
g) Saper attendere
Non essere intrusivi significa anche saper attendere, ossia significa dare all’altro il tempo di essere. Il contrario del saper attendere è il pretendere: nel pretendere c’è una richiesta di esserci secondo le attese di chi ha responsabilità della relazione. È implicita, quindi, una sottrazione di libertà, poiché restringe in anticipo il campo delle possibilità dell’altro. Il saper attendere, invece, è offerta di spazi liberi, affinché l’altro senta di poter sperimentare autonomamente la sua ricerca di sé.
h) Una buona tonalità affettiva
Si può dire che si è capaci di attivare una buona azione educativa quando si sa nutrire la relazione di cura di sentimenti sani, vitali. Uno di questi è la capacità di nutrire fiducia nell’altro: è la fiducia che rende capaci di saper attendere, di dare tempo all’altro. La fiducia è quel sentire che tiene l’anima aperta alla vita. Connesso alla fiducia è il saper accettare. Sentirsi accettati dà sicurezza e la sicurezza è un bisogno essenziale dell’anima, è solo sentendosi al sicuro che si può procedere oltre. E per procedere oltre occorre nutrire quel sentimento vitale che è la speranza, vitale perché è quel sentire che fa della vita un tempo vivo. La speranza è il respiro profondo della vita; è quel sentimento che mette in movimento, che spinge alla ricerca di ulteriori forme di esistenza.
Dare spazi a tutti
L’azione di cura accade nel fabbricare cose, nel fare gesti e nel pronunciare parole. Per trovare il modo giusto del fare, del gesto e della parola non sono necessarie sofisticate teorie, ragionamenti arditi, calcoli complessi; a essere necessario è l’attenzione a quello che la realtà chiede perché accada il meglio. “Cosa fa bene, non solo a me, non solo a te, ma anche al terzo, e adunque a noi tutti insieme?” è la domanda fondativa e orizzontativa di una politica della cura.