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Una scuola proprio come noi

Benedetta Tobagi ha fatto un viaggio nelle scuole multiculturali di città diverse, da Palermo a Genova, dalla bassa mantovana ai borghi nell’Appennino. Nel libro La scuola salvata dai bambini, racconta le fatiche e il coraggio degli insegnanti, l’allegria e le scoperte vissute nelle classi-mondo. 

di Redazione GiuntiScuola20 settembre 201612 minuti di lettura
Una scuola proprio come noi | Giunti Scuola

Prologo

Qualche tempo fa, in un video condiviso in rete, ho visto una giovane cooperante italiana di origine maghrebina, Nawal Soufi, mostrare al pubblico attonito dell’aula del Parlamento europeo di Bruxelles un salvagente fatto con un paio di calze da donna e due bottiglie di plastica da un litro e mezzo vuote. A questo, spiegava, è appesa la vita di tante donne e uomini migranti che cercano di attraversare il Mediterraneo. Parlava di un nuovo Olocausto. “E voi” incalzava, “cosa risponderete ai vostri figli quando vi chiederanno dove eravate, che cosa avete fatto, mentre si consumava questa strage silenziosa? ”.
Mi sono sentita in colpa. Da morire. […] Il senso di colpa deve essere usato come una chiave, una via d’accesso. È un “tarlo spirituale”, scrive lo psicoanalista americano Michael Eigen, che scava un foro in cui si entra per emergere in qualche altro luogo, lontano da dove uno era partito, in posti che uno non conosceva se non per sentito dire.
Ho pensato che dei migranti sapevo molto poco. Non avrei saputo cosa replicare a chi afferma “non possiamo accogliere tutti”. È vero o no? Gli stranieri in Italia oggi quanti sono? Chi sono? Dove sono? Cosa succede nei luoghi dove italiani e stranieri vivono quotidianamente fianco a fianco?

Non mi veniva in mente nessun posto dove si stesse così vicini, “noi” e “loro” (qualunque cosa vogliano dire, questi due pronomi: mi accorgo di preferire sentirmi “noi” con il simpatico pizzaiolo egiziano sotto casa e il mio affascinante parrucchiere poliglotta venuto da Mauritius, anziché con i seguaci di Salvini), come tra i banchi di scuola, dove la futura società multietnica è già realtà.

Ormai da molto tempo, all’inizio di ogni anno scolastico, si ripropongono le polemiche sulle scuole dove ci sono troppi stranieri. Periodicamente, si torna a parlare di mettere dei “tetti” alla concentrazione di alunni non italiani , oppure di “classi-ponte” in cui relegare gli stranieri che non parlano ancora la nostra lingua. Ho sempre pensato che fossero sciocchezze: probabilmente sono quasi tutti nati qui e parlano già italiano, e poi la diversità è una ricchezza, eccetera. Di nuovo, però, mi sono accorta di non avere elementi concreti per argomentare la mia lodevole indignazione.
Poi mi sono chiesta: ma io iscriverei a cuor leggero il mio bambino in una scuola dove la maggior parte dei suoi compagni di classe non sono italiani? A essere sincera, con grande imbarazzo della mia buona coscienza progressista, non ero affatto certa della risposta. Se la vita non mi avesse accomodata in un quartiere benestante dove gli stranieri (pochi e alloggiati altrove) sono soltanto bravi ristoratori, estetiste solerti, amabili badanti o donne delle pulizie cui lasciare senza remore le chiavi di casa, tutti a disposizione, sarei lo stesso la persona tollerante che mi pare di essere?
Il buchino del mio tarlo, insomma, portava lì. Ho deciso di andare a vedere con i miei occhi. Scuole primarie, ho pensato: dove si prendono due piccioni con una fava, bambini e genitori, italiani e stranieri, insieme ogni giorno. Scuole pubbliche, ovviamente.
[da La scuola salvata dai bambini ]

Delle scuole non si sa niente

Questo viaggio mi ha cambiata. Ha cambiato il mio sguardo sull’Italia, sui migranti, sulle scuole. Parafrasando il titolo di un fortunato romanzo, ho capito che, da fuori, “delle scuole non si sa niente”. Bisogna entrarci davvero, passarci un po’ di tempo, per capire qualcosa. Soprattutto, per rendersi conto di quanto sia difficile e delicato il mestiere di insegnare, soprattutto in classi multiculturali (che spesso sono anche “multiproblematiche”, perché il maestro si trova a far fronte a ritardi cognitivi, problemi caratteriali, a sofferenze da abbandono, al trauma migratorio dei bambini neoarrivati…).
La ricchezza di esperienze che ho incontrato mi ha sorpresa. Da Milano a Palermo, da Genova a Udine, passando per la bassa mantovana e i borghi sull’Appennino, ho scoperto l’importanza di coltivare la lingua madre dei bimbi migranti , le potenzialità della didattica plurilingue e di un approccio interculturale all’insegnamento, che offre ai bambini di tante primarie la ricchezza di un Erasmus anticipato all’età scolare. Ho provato a raccontarlo pensando ai non addetti ai lavori, per capire (e far capire) meglio cosa sia la scuola oggi e quale funzione svolga a vantaggio della società tutta, nei fatti, fuor di retorica. Ho capito che tante paure dei genitori italiani sono comprensibili, ma infondate: fissarsi sui “programmi” è un anacronismo anche dal punto di vista ministeriale, e le migliori prassi didattiche sono inclusive, non competitive. Ho scoperto che gli stranieri - a scuola e fuori - possono essere una ricchezza , anziché una zavorra. E le scuole che hanno dovuto affrontare la sfida di un’utenza multiculturale hanno dovuto svecchiarsi e innovare, quindi finiscono per essere scuole più ricche e innovative delle altre. Ho scoperto che le difficoltà ci sono, e sono tante: la convivenza non è una passeggiata. Ma ho visto chiaramente che i problemi, più che la nazionalità e la religione, riguardano la condizione sociale. Dentro e fuori da scuola, il vero grande problema non sono gli stranieri, ma l’ombra della povertà crescente – materiale e socio-culturale – di fasce sempre più ampie della popolazione, italiana e non. A scuola, la povertà si vede. Pesa. La scuola è tra le poche istituzioni che (non sempre, ma spesso) cerca di contrastare davvero le disuguaglianze.
Ho conosciuto moltissimi bravi docenti e dirigenti, ma mi sono resa conto che ce ne sono altrettanti che sono del tutto inadeguati: la pessima esperienza dell’ultimo “concorsone” conferma che ancora il Ministero non ha trovato risposte efficaci al problema della formazione e della selezione del corpo docente.

La scarsità delle risorse

Ho imparato tanto, e non solo sulla scuola. A partire da questo microcosmo risultano visibili in modo nitido molte tendenze e contraddizioni della società nel suo complesso.
Il degrado dei mezzi d’informazione, per esempio. Il modo in cui rappresentano la realtà scolastica è quasi esclusivamente sensazionalista : nel caso delle scuole ad alta densità di stranieri, creano periodicamente “casi clamorosi” di “ghetti” o episodi d’intolleranza e degrado, il cui impatto negativo sugli insegnanti, i bambini e le loro famiglie è difficile da immaginare (l’ho visto accadere a Brescia, Padova, Torino). Il racconto mediatico, inoltre, tende a essere manicheo: “santini” deamicisiani o storiacce di maestre violente e bidelli fannulloni. Una narrazione ipersemplificata, che non dà conto della complessità e delle enormi contraddizioni che attraversano l’universo educativo. Scrivendo, ho cercato di restituire i chiaroscuri, senza però smorzare il sincero entusiasmo che ho provato davanti a tante esplosioni inattese di bellezza in luoghi per altri versi orrendi.
Ho provato molta rabbia nel rendermi conto di come il dibattito pubblico sulla scuola, negli ultimi tempi, monopolizzato dalla propaganda governativa e dalle discussioni tecniche intorno alla legge su “la buona scuola”, ignori il vero, colossale problema: la scarsità di risorse, l’elefante rosa che si aggira nel soggiorno dal 2009, dai tempi in cui l’azione combinata dei ministri Tremonti e Gelmini colpì la scuola pubblica con tagli senza precedenti. Il sistema non si è mai più ripreso.
Nelle scuole dove i bambini non italiani sono numerosi, si vede subito quale danno enorme sia stato tagliare le ore di compresenza , che erano il fiore all’occhiello del tempo pieno alla scuola primaria. Basterebbe, a volte, ripristinare quelle, per garantire il supporto necessario all’insegnamento dell’italiano come lingua seconda o al potenziamento linguistico. I tagli feroci ai fondi Miur destinati alle aree a rischio e a forte processo immigratorio, poi (sono passati dai 53 milioni stanziati per l’anno scolastico 2011/’12 agli appena 18 del 2015/’16), gridano vendetta al cielo.

Servono lungimiranza e progetto

Mentre viaggiavo per le scuole d’Italia, si è verificata una sequenza angosciante di fatti di terrorismo (Parigi, Nizza, Dacca, la Germania) ed episodi di intolleranza, come la morte del rifugiato nigeriano Emmanuel Chidi, a Macerata, a seguito di una rissa con un ultras che aveva rivolto a sua moglie insulti razzisti. Mentre scrivo ora, tutti discutono della piaga del cyber-bullismo, dopo il suicidio della giovane Tiziana e il caso delle 17enni che hanno condiviso il video dello stupro di un’amica, che hanno filmato senza muovere un dito. Dopo ognuno di questi episodi, per una settimana o poco più, su giornali, tv, social network, radio, i commentatori levano alte grida invocando il potere salvifico dell’educazione – come antidoto alla radicalizzazione islamista, alla barbarie sui social network… peccato, però, che nel frattempo il dissanguamento della scuola pubblica continui nel silenzio assoluto, senza che i decisori politici vi pongano rimedio. Fino a quando?
Per dirlo con le parole di Neli, un’operatrice sociale di origine albanese che lavora ad Ancona, dobbiamo avere molta cura delle seconde e delle terze generazioni: la partita decisiva si gioca ora. Ma l’Italia, quanto a politiche scolastiche per l’integrazione, è stata classificata dalla Commissione europea come non-systematic model . La pubblica istruzione, come le politiche ambientali, oggi richiederebbe occhio lungo e capacità di progetto. Purtroppo, mi hanno detto, amareggiati, molti addetti ai lavori, quanto e più dei soldi è proprio il progetto, la visione politica complessiva, a mancare. Si naviga a vista.

Bambini insieme: con molta allegria

Ho visto con i miei occhi come la scuola, ogni giorno, può lavorare in modo efficace per dare ai bambini un solido senso di sé, coltivare il senso di responsabilità, il rispetto per gli altri. Gli alunni imparano a gestire le frustrazioni, ad aver fiducia nelle proprie capacità, a scoprire i propri talenti. Bisogna lavorare oggi per non trovarci domani con una massa ancora più grande di cittadini arrabbiati, spaventati, carichi di risentimento.
Quanto al presente, ho visto come una paziente opera di tessitura e mediazione da parte degli insegnanti possa smussare i pregiudizi dei genitori italiani, oppure contribuire alla socializzazione dei genitori di altri paesi e altre culture: di fatto, gli insegnanti spesso “educano alla cittadinanza” anche loro, insieme ai figli, per esempio quando si adoperano per far sì che le bambine delle famiglie musulmane più conservatrici possano avere la stessa libertà e le stesse possibilità dei figli maschi.
In questo particolare e delicato passaggio storico verso una società sempre più multietnica, il lavoro della scuola pubblica è insostituibile. Ho cercato di raccontarlo e spiegarlo nella concretezza delle situazioni, dalle periferie delle grandi città come Genova e Torino ai quartieri ad alta densità camorrista di Napoli, ai borghi del centro Italia e della provincia lombarda.
Scrivere questo libro è stato anche un modo di rendere omaggio al silenzioso sforzo quotidiano di tante donne e uomini che dentro le scuole, in condizioni spesso disastrose, e decisamente sottopagati, continuano a fare del loro meglio. Ho un debito di gratitudine verso di loro: senza la fiducia che mi hanno accordato aprendomi le porte delle loro classi, portandomi tra i bambini, confidandomi le loro storie, questo libro non esisterebbe. Devo ringraziare anche i bambini: mi hanno toccato, sorpreso, commosso. In loro ho visto molte volte, come in uno specchio, dolori ed emozioni della mia propria infanzia. Grazie a loro, ho sentito antichi pesi sciogliersi infine come fumo nero nell’aria. Mi hanno regalato una nuova tenerezza per me stessa e gli altri , e molta, molta allegria. Spero che qualcosa di tutto questo sia rimasto impigliato tra le pagine, e vi passi sulla punta delle dita, mentre le sfogliate.

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