Articoli
Sbagliare è un’arte (anche per l’insegnante)
Insegniamo ai bambini a fare errori, non a essere perfetti: intervista a Enrico Galiano

Enrico Galiano è insegnante, scrittore e molte altre cose ancora. Ha esordito con Eppure cadiamo felici e ha continuato a pubblicare romanzi di successo come Tutta la vita che vuoi, Più forte di ogni addio, Dormi stanotte sul mio cuore. La sua webserie su Facebook, “Cose da prof”, conta oltre 20 milioni di visualizzazioni. In classe, negli incontri con gli studenti, nei suoi libri e sui social parla con i ragazzi e dei ragazzi con leggerezza e profondità.
Il tuo ultimo libro, L’arte di sbagliare alla grande, è un invito a non aver paura degli errori: vale anche per gli insegnanti?
Un tempo c’era il docente infallibile, adesso è diverso e anche l’insegnante ha finalmente il diritto di sbagliare. Stiamo recuperando la dimensione umana della nostra professione: mettiamo sempre di più al centro la relazione con gli studenti. Ma per farlo bisogna tornare alla persona che c’è dietro al maestro, alla maestra; altrimenti è impossibile stabilire una vera relazione ed è impossibile che i bambini, soprattutto i più piccoli, imparino.
Si può insegnare a sbagliare?
Si può, anzi, si deve... E insegnando a sbagliare si insegna a fare la cosa giusta, quella giusta per ciascuno dei ragazzi. Facile da dire ma difficilissimo da fare: insegnare a provarci, a cadere. Nelle arti marziali il maestro ti insegna sì a combattere, ma prima di tutto a cadere bene. Dalla caduta si può anche sconfiggere l’avversario, perché lo si prende di sorpresa. Lo stesso vale in matematica, scienze, italiano… e negli errori della nostra vita quotidiana. L’ importante è capire come cadere senza farsi troppo male. Se lo impari è un’arte preziosissima, la vita ti esporrà a un sacco di fallimenti e al traguardo arriverà chi riesce a rialzarsi ogni volta.
Quindi i ragazzi dovrebbero sentirsi liberi di sbagliare, in un ambiente protetto: come fare?
Va sdoganato l’errore, decontaminato dal senso di colpa. Noi insegnanti sappiamo che chi fa qualcosa di sbagliato è percepito come qualcuno che è sbagliato. E allora i bambini e i ragazzi cominciano a dirsi “non so scrivere e non sarò mai capace…”, “non sono bravo in matematica e non lo sarò mai…”.
Ripartiamo dalla figura dell‘insegnante: deve mettere in gioco la sua fallibilità e far vedere che sbaglia… Non c’è nemmeno bisogno di sforzarsi, il nostro è un lavoro ad altissima concentrazione di errori, dalle nozioni alle relazioni ne facciamo un sacco! Il bravo insegnante cerca di non farli più dal giorno dopo, quello convinto di non sbagliare mai ripete sempre gli stessi errori.
Prima facciamo una autoanalisi, o meglio una bella lista di errori, mettiamoci quelli grossi, brutti, terribili (così ho fatto nel mio libro, raccontando i miei!): ecco, questi errori ci hanno portato a essere ciò che siamo.
C’è molta differenza tra fare errori alla primaria e alla secondaria?
La scuola deve essere il luogo dell’errore anche dopo la primaria, a 12 anni ti senti in colpa per un 4 e ti entra in testa l’idea di non essere capace, di non saper fare le cose. Ma a quell’età siamo ancora in allenamento alla vita, non in partita! Le “medie” sono un periodo di metamorfosi, anche per i ragazzi di quell’età è necessaria la libertà di sbagliare, e non è indulgenza (perché è una parola che rimanda a perdo- no e di nuovo a colpa). Se non ti senti libero di sbagliare, se la scuola non è una zona protetta per provare, non potrai mai fare niente di buono.
Quali sono gli ostacoli che frenano gli studenti: paura, condizionamenti esterni, ansia...?
L’atteggiamento degli adulti ha molto peso, vedo i genitori tra due estremi: menfreghismo totale oppure quella che chiamo la presenza ingombrante dell’amore. Oggi, rispetto al passato, l’adulto si sente corresponsabile di successi e fallimenti del figlio. E gli studenti avvertono molto la volontà del genitore di essere sempre lì; ma l’amore è fatto anche di lasciar andare, è uno spazio di libertà dove ognuno è responsabile per sé stesso. È un aspetto su cui lavorare fin da piccoli, davanti a un fallimento scolastico dobbiamo dire a un figlio “non sarai mai una delusione per me, è una cosa tua, perderai tu ma non perderai il mio amore, io potrò stare male ‘con te’…”.
La loro ansia, mi confidano gli studenti, viene dai loro adulti di riferimento, temono di deluderli. Se si impegnano solo per far stare tranquilli i genitori, non va bene… Poi rischiano di diventare adulti che, per esempio, fanno lavori che non amano, solo per far star buone le persone intorno a loro.
Quanto è importante un team di lavoro per un obiettivo come questo, rendere i bambini e i ragazzi liberi di sbagliare?
Sono contrario a chi dice che deve pensarci la famiglia o che deve farlo la scuola. Un bambino lo cresce un villaggio intero. Perché il bambino di oggi sia un adulto felice domani è essenziale la collaborazione tra famiglia e insegnanti e fra noi docenti. Se trovi colleghi con una “filosofia diversa” si possono creare attriti, però non è un lavoro che puoi fare da solo, perde di efficacia.
La paura di sbagliare, come racconti nel tuo libro, si accompagna spesso al perfezionismo.
Sì, un perfezionismo quasi invalidante: le cose, se non vengono perfette, non si fanno neanche. Il mio libro vuole demolire questo falso mito di perfezione che ci è stato propinato da decenni di tv, cinema e oggi dai social. Il perfezionismo può essere deleterio soprattutto in adolescenza, età delle imperfezioni. E invece sono proprio le imperfezioni che ci caratterizzano, se le sappiamo riconoscere da subito, se ce le giochiamo bene, possono diventare il nostro punto di forza, come tanti personaggi famosi ci insegnano. Mi piacerebbe che questo libro aiutasse i ragazzi e gli insegnanti a portare in classe un’idea: meglio essere veri che perfetti.