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La comunicazione in classe

Gli scambi comunicativi originati dagli alunni (informazioni da condividere con l’insegnante, “sfoggio” di ciò che hanno appreso, richieste di aiuto) sono importanti per motivarli alla scoperta e alla costruzione del sapere

di Anna Silvia Bombi, Anna Di Norcia20 dicembre 202118 minuti di lettura
La comunicazione in classe | Giunti Scuola

La comunicazione educativa è un campo di indagine sterminato e tanto vario quanto sono molteplici le funzioni dell’insegnante. Un docente deve senz’altro saper fare lezione e quindi esporre in modo chiaro, ordinato, accattivante ciò che intende trasmettere (Desideri, 1992); nel contempo deve gestire il gruppo classe, non solo decidendo le attività e regolando il comportamento degli alunni (Blandino, 2011), ma anche mettendo in atto forme di lavoro che vedano gli allievi protagonisti, come gruppi di discussione o laboratori (Andrich, Miato, Polito, 2001).
Per di più, quando l’insegnamento non consiste nella trasmissione di nozioni, ma anche (o meglio, soprattutto) nell’attivazione di un processo autonomo di scoperta e costruzione del sapere da parte degli allievi, la comunicazione educativa deve essere un veicolo di emozioni attivanti e positive, nel quadro di regole procedurali, ossia indicazioni sul “come si fa” ad andare avanti nel cammino spesso accidentato e faticoso della conoscenza. La pedagogia delle discipline delinea i percorsi comunicativi in ambiti diversi, come la matematica, la storia, la seconda lingua ecc., ciascuno dei quali prevede un proprio stile e specifici passaggi; ma senza un’adeguata preparazione psicologica è difficile, per l’insegnante, utilizzare una comunicazione che sia adeguata anche sul piano emotivo, e quindi adatta a sostenere la motivazione autonoma.
Una delle ragioni di questa difficoltà è il contesto della classe, un gruppo inevitabilmente eterogeneo e quasi sempre numericamente superiore a quello che tecnicamente si definisce “piccolo gruppo” (ovvero una quindicina di persone). Le dinamiche interpersonali tra pari e con l’adulto risentono di molti fattori, non sempre facili da gestire (nella Scheda 1 di “Strumenti e percorsi” al termine del presente contributo si può vedere un esempio di come incida lo spazio fisico dell’aula): eppure la comunicazione dell’insegnante deve essere efficace proprio nel contesto del gruppo classe.


Messaggi scomodi

Con tutta evidenza, vari aspetti dell’insegnamento non sono facili da conciliare con questi obiettivi. In primo luogo, all’insegnante spetta valutare, e questo vuol dire essere anche latori di cattive notizie, quando le prestazioni dell’alunno sono inadeguate; in secondo luogo, nel regolare il comportamento degli alunni e far funzionare il gruppo-classe il docente affronta il problema di mantenere la disciplina, trovandosi quasi inevitabilmente a pronunciare anche dei rimproveri.
Muovendosi nella tradizione di Carl Rogers (il noto promotore della “terapia centrata sul cliente”), lo psicologo statunitense Thomas Gordon ha esaminato dodici tipi di messaggi degli adulti che scoraggiano la cooperazione da parte dei più giovani, figli o alunni che siano (Gordon, 2013). Questi messaggi, a nostro avviso, si possono ricondurre a quattro categorie (Bombi, 2021):

  1. affermazioni di potere;
  2. giudizi negativi;
  3. insegnamenti dall’alto in basso;
  4. interferenza emotiva.


È facile capire come mai siano scoraggianti le affermazioni di potere, quali minacce e ordini a bacchetta («Ve ne pentirete!», oppure «Smettila immediatamente») che generano paura o risentimento e ribellione, o le domande ironiche, dense di sfiducia («E il quaderno, oggi l’hai portato, finalmente?»). Del pari, ognuno sa che i giudizi negativi sono scomodi da digerire: quando il giudizio va proprio alla persona, come accade etichettando un alunno («Sei svogliata»), talora con un termine umiliante («Pasticcione»), si crea un senso di indegnità personale. Anche i tentativi di essere più leggeri, usando l’umorismo («Ecco i nostri due là in fondo che fanno di nuovo Stanlio e Ollio»; «Signorina, stiamo aspettando lei»), possono risultare imbarazzanti e generare rifiuto del messaggio. Persino le critiche mirate a un fatto specifico, come «Ti stai comportando malissimo», possono sortire effetti opposti a quello desiderato, rafforzando il comportamento negativo, che probabilmente era meglio ignorare.


L'effetto negativo di alcuni insegnamenti

Forse i lettori saranno invece un po’ sorpresi nel leggere che Gordon considera negativi alcuni insegnamenti: dopotutto, non è questo ciò che un docente fa di mestiere? Va specificato che in questa categoria rientrano dei modi piuttosto sgradevoli di rimarcare le disparità di ruolo. Un esempio chiaro sono le prediche moraleggianti («Quello che avete fatto disonora la scuola!»; «Se non ti applichi sai già dove vai a finire»), a cui gli alunni cercano di chiudere le orecchie per non sentirsi in colpa.
Non meno rischiosi sono i tentativi di interpretazione («So bene perché lo fate: volete provocare»; «Sei troppo timido»), che creano imbarazzo se la “diagnosi” è giusta e mette a nudo l’intimità personale, mentre fanno arrabbiare se il commento non ha colto il bersaglio. Persino le argomentazioni logiche, tanto utili quando l’alunno è alla ricerca di una soluzione, diventano rischiose quando utilizzate per risolvere una situazione critica («Avevi detto che ti saresti impegnato, ma è già passata una settimana e ancora non hai finito quel lavoro»). Elemento comune a tutti questi “insegnamenti” è il fatto di mettere all’angolo l’interlocutore e quindi – paradossalmente – intensificare il suo desiderio di resistere al contenuto del messaggio, o provocare un’obbedienza provvisoria e risentita.

Anche la lode è un giudizio e sottolinea l’asimmetria di ruolo tra insegnante e alunno, e tra alunni lodati e alunni che restano a bocca asciutta

Quando il supporto emotivo non va a buon fine

Infine – e forse ancor meno ovvio – Gordon ci ricorda che non sempre il supporto emotivo va a buon fine, soprattutto se dispensato senza cogliere i reali bisogni dell’alunno e della classe. Minimizzare un problema con frasi del tipo «Dai, non è niente!» di fronte a un alunno in lacrime non fa che dimostrargli di essere solo, o di provare emozioni “sbagliate”, inaccettabili per la figura adulta. Del pari, offrire soluzioni («Adesso smetti di pensarci»; «Fai come ti dico io, che è meglio») può funzionare solo se non diventa un’abitudine per cui l’alunno impara ad affidarsi costantemente all’insegnante al minimo segno di difficoltà.
Persino le lodi sono un’arma a doppio taglio: se rivolte al singolo possono generare invidia o sentimenti di inferiorità in chi non le riceve; se rivolte alla classe possono apparire false o immeritate a quelli che sentono di aver contribuito poco – e la lista dei rischi potrebbe continuare – ma, per dirla in breve, anche la lode è un giudizio e sottolinea l’asimmetria di ruolo tra insegnante e alunno, e tra gli alunni lodati e quelli che restano a bocca asciutta.

Le buone domande, specifiche e ben formulate, provengono in genere da alunni con un discreto potenziale cognitivo

Il loro "punto di vista"

Lodi e rimproveri sono determinanti nel definire lo stato d’animo dell’alunno. In uno studio pubblicato di recente (Bombi et al., 2021) abbiamo chiesto a bambini di scuola primaria (dalla classe seconda alla quinta) di disegnare se stessi con l’insegnante più presente nella loro classe, in due opposte situazioni: nel disegno B “quando le cose tra te e la maestra X vanno bene e state bene insieme” e nel disegno M “quando le cose tra te e la maestra X vanno male e non state bene insieme”. Un esame delle situazioni disegnate ci mostra come i giudizi sui risultati scolastici siano di pari importanza come fonte di benessere o di malessere, a seconda che si tratti di un “Bravo” o di un bel voto scritto sul quaderno (35% delle situazioni rappresentate nei disegni B) o di un voto basso o un “Male” pronunciato ad alta voce (33% delle situazioni nei disegni M).
Invece i giudizi sul comportamento compaiono solo al negativo in oltre metà dei disegni M (52%), mentre non sono mai state raffigurate situazioni in cui l’insegnante rileva ed elogia un buon comportamento.
Queste rappresentazioni corrispondono a una situazione reale: gli insegnanti italiani sono – salvo eccezioni – avari di approvazioni, in particolare verso la condotta, che invece è il principale oggetto di rimproveri; quando invece gli insegnanti riescono a bilanciare meglio i propri feedback, i risultati sono positivi sia per gli alunni che si impegnano di più, sia per gli insegnanti stessi che aumentano la propria auto-efficacia (Sulla et al., 2016).
Inoltre è importante ricordare che i messaggi verbali dell’insegnante, anche quando rivolti al singolo alunno, sono tipicamente espressi di fronte a tutta la classe; questi “giudizi pubblici” pesano – in bene o in male – non solo di per sé, ma anche come fonte o conferma della reputazione tra pari. In uno studio recente (Di Lellio, Di Norcia, 2018) una di noi ha esaminato i feedback rivolti agli alunni da tre insegnanti di quarta primaria distinguendo tra quelli positivi (lodi, conferme), negativi (rimproveri o giudizi negativi), correttivi (suggerimenti per migliorare) e altro (per esempio commenti neutrali). Considerando in particolare i feedback rivolti ai singoli alunni, si è potuto constatare che tutte e tre le insegnanti utilizzavano piuttosto di rado dei feedback negativi, ma i bambini oggetto di tali messaggi risultavano essere tipicamente quelli rifiutati dai compagni, mentre di rado ciò capitava agli alunni più popolari nel gruppo.
I dati dello studio in questione non permettono di dire se i messaggi delle insegnanti abbiano concorso a determinare il rifiuto, o se siano stati conseguenza di quegli stessi comportamenti negativi che ne sono alla radice: ma di certo, al di là delle intenzioni, possono aver avvalorato il giudizio dei compagni sui bambini poco amati, aggravandone la situazione.


E se fosse l'alunno a interrogare l'insegnante?

Molte delle riflessioni sulla comunicazione educativa riguardano l’insegnante come emittente, ossia nei panni di chi propone attività, illustra contenuti o spiega regole, pone domande. In un’aula del passato, al parlare dell’insegnante faceva riscontro il silenzio degli alunni, salvo il momento delle interrogazioni orali. Al giorno d’oggi, in una prospettiva di insegnamento più decentrata, in cui l’alunno sia motivato alla scoperta e alla costruzione del proprio sapere, sono invece molto importanti anche gli scambi comunicativi originati dagli alunni stessi, quali informazioni da condividere con l’insegnante, “sfoggio” di ciò che si è appreso, ma soprattutto domande, e in particolare le richieste di aiuto.
Per quanto possa sembrare strano, non molti feedback dell’insegnante sono evocati da domande verbali degli alunni, e men che meno da domande su aspetti delle materie di studi o problemi cognitivi. Nonostante il valore della curiosità per lo sviluppo della conoscenza, c’è poca ricerca sul tema; gli studi esistenti ci dicono che gli alunni fanno poche domande agli insegnanti e specialmente rivolgono poche richieste di aiuto; se poi i banchi sono disposti secondo tradizione, in quattro o cinque file parallele, c’è da aspettarsi che le domande arrivino solo dai primi banchi, confermando quanto la prossemica ci insegna sull’importanza di un contatto visivo diretto nella conversazione.
Non sempre le domande sono incoraggiate dagli insegnanti, preoccupati di deviare dallo svolgimento del programma, ed effettivamente non tutte le domande sono parimente utili. Alcuni alunni chiedono aiuto solo per non faticare o per non mettersi in gioco, e persino per mettere alla prova la pazienza dell’insegnante: queste sono domande non adattive, che vanno ovviamente scoraggiate. Gli insegnanti le possono riconoscere facilmente perché vengono “sparate” al primo segno di difficoltà, o addirittura prima di impegnarsi nel compito proposto, talora con un tono petulante; gli alunni che più spesso intervengono in questo modo corrispondono a un “profilo dipendente” che è stato evidenziato da uno studio di Ryan, Shim e Patrick (2005).


Le buone domande

Quando invece un alunno pone una domanda perché è interessato a capire fino in fondo, o perché si rende conto di essere in un vicolo cieco, lungi dal costituire un segno di dipendenza, la richiesta di aiuto è un segno della sua motivazione, del suo coinvolgimento attivo nel processo di apprendimento o nella soluzione di un problema. E in effetti le buone domande provengono in genere da alunni con un discreto potenziale cognitivo, perché sono specifiche e ben formulate e perché coloro che le pongono non sono in cerca di una soluzione bella-e-pronta ma solo di una “dritta” che indirizzi il loro pensiero. Gli autori sopra citati hanno definito “appropriato” il profilo di richiesta che caratterizza questi alunni.
È tuttavia importante ricordare che fare domande all’insegnante richiede anche competenze sociali, per trovare il momento giusto e il tono giusto, e aspettare la risposta con pazienza; richiede inoltre fiducia nell’insegnante e in se stessi, perché manifestare pubblicamente un “non so” può essere difficile, soprattutto per gli adolescenti: non a caso gli studi sulle domande di aiuto indicano un declino di questo comportamento già nella scuola secondaria di primo grado. Il profilo “evitante” evidenziato da Ryan, Shim e Patrick (2005) si lega infatti maggiormente all’insicurezza che al disinteresse o alla mancanza di risorse cognitive. Vale quindi la pena di osservare gli alunni e creare qualche opportunità in più (magari avvicinandosi all’alunno “evitante” in modo da non costringerlo a esporsi davanti a tutti) con frasi come «Penso che ti serva sapere ancora qualcosa per andare avanti» oppure, in modo ancora più neutrale: «Ti va di dirmi a che punto sei?». Siamo quasi sicure che dare più voce ai silenziosi avrebbe utili ricadute sulla difficile impresa di mantenere il benessere in classe.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Andrich S., Miato L., Polito M. (2001), «Il superamento della lezione frontale: apprendimento cooperativo e le risorse del gruppo classe», in Materiali del 3° Convegno La qualità dell’integrazione nella scuola e nella società, reperito in https://cursa.ihmc.us/rid=1158080167483_81508279_3885/appr%20cooperativo.pdf
  • Blandino G. (2011), «Le risorse emotive nella scuola», in La promozione della salute nella scuola, Atti del Convegno, 39-46, reperito in https://m4.ti.ch/fileadmin/GENERALE/FSS/PDF/Convegno_PromozioneSaluteScuola.pdf
  • Bombi A.S. (2021), Crescere. In viaggio dall’infanzia all’età adulta, il Mulino, Bologna.
  • Bombi A.S., Cannoni E., Gallì F., Di Norcia A. (2021), «Children’s pictorial representation of their interactions with teachers», Psicologia Educativa, 27(1), 13-20. https://doi.org/10.5093/psed2020a14
  • Desideri P. (1992), «Lo statuto linguistico della lezione: tecniche e operazioni pragmatiche dell’interazione verbale in classe», in Brasca L., Zambelli M.L. (a cura di), Grammatica del parlare e dell’ascoltare a scuola, Quaderni del Giscel, 187-199, La Nuova Italia, Firenze.
  • Di Lellio V., Di Norcia A. (2018), «Feedback degli insegnanti e status sociometrico dei bambini in classi di scuola primaria», Rassegna di Psicologia, XXXV, 2, 77-86, Edizioni Nuova Cultura, Roma.
  • Gordon Th. (2013), Insegnanti efficaci, Giunti, Firenze.
  • Jotta V., Sulla F., Rollo D. (2016), «La disposizione dei banchi: effetti e rapporto con le attività in classe», Psicologia dell’educazione, 1, 71-88.
  • Ryan A.M., Shim S.S., Patrick H. (2005), «Differential profiles of students identified by their teacher as having avoidant, appropriate, or dependent help-seeking tendencies in the classroom», Journal of Educational Psychology, 97(2), 275-285. doi:10.1037/0022-0663.97.2.275
  • Sacconi B., Zucchetti G., Gallo A., Rabaglietti E. (2014), «Geografia spaziale e relazioni in classe. Il contributo della vicinanza fisica per le relazioni amicali tra bambini», Psicologia e scuola, gennaio-febbraio, 33-39.
  • Sulla F., Armenia E., Eramo P.P., Rollo D. (2016), «Gli effetti di un training breve volto a modificare i feedback verbali di un gruppo di insegnanti di scuola primaria», Psicologia dell’educazione, 1, 159-174.
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