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Gli adulti si “impadronano” della nostra vita
Cercherò di descrivere l’esperienza di un alunno del biennio superiore attraverso i suoi propri occhi, fondandomi sull’osservazione quotidiana (e spero empatica) di quanto esso comunica con le parole ma soprattutto con i suoi gesti e comportamenti
Per quanto sia difficile assumere il punto di vista di un altro molto diverso da noi, cercherò di descrivere l’ esperienza di un alunno del biennio superiore attraverso i suoi propri occhi, fondandomi sull’osservazione quotidiana (e spero empatica) di quanto esso comunica con le parole ma soprattutto con i suoi gesti e comportamenti.
Il ragazzo che entra in un istituto tecnico superiore porta sulle spalle dagli otto agli undici anni di scuola, che hanno agito su di lui in triplice modo:
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Spegnendo
progressivamente quello che nel bambino è il bene più prezioso: la curiosità e il piacere di conoscere.
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Trasformando la realtà viva
in materie scolastiche (che evitano le domande del soggetto e sono appannaggio inalienabile del docente) e sottraendo alle parole pressoché ogni rapporto con la realtà stessa.
- Convincendo il ragazzo per ciò che sta facendo a scuola non valga la pena di assumersi la fatica e il rischio insiti in ogni serio apprendimento.
Il risultato di questo triplice processo viene rovesciato addosso al ragazzo in forma capovolta, ossia: "non sei disposto ad impegnarti per apprendere le materie scolastiche, cioè non sei scolarizzato né scolarizzabile" . Così recitano gli atti ufficiali che destinano i ragazzi o “all’ inserimento immediato nel mondo del lavoro ” (ineffabile eufemismo, specie nelle nostre contrade) o alle scuole di categoria B , professionali e tecnici.
Vale la pena notare come, viceversa, nessun documento ufficiale certifichi la qualità del servizio di cui ha usufruito il ragazzo licenziato dalla scuola dell’obbligo. Non risulta, ad esempio, quanti e quali insegnanti abbia incontrato sulla sua strada: io ho avuto non pochi alunni che hanno adempiuto all’obbligo cambiando dalla prima elementare un insegnante all’anno, a volte due.
Ora, mentre il ragazzo viene continuamente chiamato dalla famiglia e dalla scuola a
render conto delle sue mancanze
, nessun esemplare del mondo adulto - a quanto mi risulta - è tenuto a render conto al ragazzo per i suoi diritti violati o negati.
Questa dissimmetria, che ferisce profondamente il
senso di giustizia
dell’adolescente, a lungo andare produce in lui una immedicabile
sfiducia
nella possibilità che gli venga resa ragione e la conseguente convinzione che l’unica difesa per lui sia la fuga.
Ma il danno è ancora più profondo. La
mancanza di significato
di ciò che quotidianamente viene costretto a fare a scuola pone il bambino prima, il ragazzo poi, in un
dilemma angoscioso
: o la sua intelligenza lo inganna o gli onnipotenti adulti sono dei falsari.
Non permettendogli la sua fragilità psicologica di accettare la seconda ipotesi perché troppo pericolosa per lui, si rassegna ad accettare la prima, adeguandosi pian piano all’insensatezza. Questo è il motivo per cui i ragazzi meno scolarizzabili sono i più intelligenti.
Questo alumnus , così malamente nutrito, approda dunque al suo terzo ciclo di studi sulla base degli inossidabili automatismi di status socio-culturale della famiglia e di profitto standard, che poco o nulla hanno a che vedere con le sue reali attitudini e aspirazioni. Il ragazzo che sceglie gli istituti tecnici e professionali ha già addosso, mediamente, un buon bagaglio di delusioni e fallimenti , addebitati, come si è detto, a sua esclusiva colpa. Tuttavia la naturale plasticità dell’individuo giovane lo predispone a tentare l’avventura e lo fa con angoscia quando la scuola superiore sia vissuta come banco di prova di una f ragile autostima , già duramente scossa nei cicli precedenti…
Stendiamo un velo pietoso sulla qualità dell’accoglienza che la scuola superiore riserva ai corpi dei propri utenti (non occorrono manuali di psicologia per sapere quale posto abbia il corpo nei pensieri di un adolescente: basta fare il censimento degli insulti che i nostri alunni si scambiano incessantemente al riguardo). Limitiamoci a considerare ciò che la scuola offre alla loro psiche . Agli interrogativi che affollano l’animo del ragazzo, l’istituto superiore va a formulare una risposta del tipo: qui non è la scuola dell’obbligo, nessuno ti ha costretto a venire, siamo qui per giudicare se ne sei degno .
Il quadro sconfortante che ne esce conferma negli insegnanti la loro opinione che la scuola dell’obbligo produce analfabeti e che occorre “una bella pulizia” (espressione frequente nella sala professori quanto nella vicina Yugoslavia) per impedire che accedano al triennio. " Sennò cosa diranno i colleghi di noi?" .
Per approfondire
Carla Melazzini,
"Insegnare al principe di Danimarca"
,
Sellerio 2011.