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Storie indignate

Tempo di letture estive. Ilaria Tagliaferri ha intervistato per noi Francesco D’Adamo, autore di diversi libri, tra cui "Oh, freedom!": un romanzo avvincente che parla di libertà, musica e amicizia.

di Ilaria Tagliaferri05 giugno 20148 minuti di lettura
Storie indignate | Giunti Scuola

Impegnato, indignato, appassionato: Francesco D’Adamo è autore di letteratura civile, di storie che raccontano ai ragazzi il nostro mondo e affrontano temi forti, come la vita in periferia, con le sue scelte difficili e le disobbedienze ( Radio Niente , Lupo Omega , L’astronave & Vil Coyote ), il rifiuto della guerra ( Johnny il seminatore ), i viaggi senza ritorno o con un ritorno triste ( Storia di Ismael che ha attraversato il mare ) e ancora lo sfruttamento minorile ( Storia di Iqbal , grande successo internazionale).

L ’ultima storia pubblicata da Francesco D’Adamo con Giunti è Oh , freedom ! , ambientata negli Stati Uniti di metà Ottocento, quando in molti paesi era ancora in vigore la schiavitù degli afro-americani . Nel libro, ricco di colpi di scena, due famiglie di schiavi attraversano il paese dall’Alabama all’Illinois, guidate dalla figura leggendaria di Peg Leg Joe, che le aiuterà a raggiungere quella che veniva definita una sorta di Canaan, una “Terra Promessa” dove finalmente i neri avrebbero riacquistato la libertà.

Abbiamo incontrato Francesco d’Adamo in occasione del Salone Internazionale del libro di Torino, e gli abbiamo rivolto alcune domande.

Sullo sfondo di Oh, freedom si parla di una realtà storica ancora poco conosciuta e molto affascinante, quella della Underground railroad . Può spiegarci di cosa si tratta?

Stavo andando a Barcellona in occasione della festa del libro di San Giorgio (dove i ragazzi regalano alle ragazze una rosa rossa e le ragazze regalano un libro ai ragazzi) e sulla nave dove viaggiavo ho sentito raccontare da alcuni musicisti di un’organizzazione segreta che nell’Ottocento prendeva gli schiavi e li aiutava ad attraversare gli States da sud a nord , la Underground railroad .

Era una rete viaria di itinerari segreti, corredata di rifugi, alcuni naturali, altri messi a disposizione da cittadini americani contrari alla schiavitù, che conduceva dal sud della nazione agli stati abolizionisti del nord, fino in Canada. Figure chiave delle traversate erano le guide, che comunicavano con gli schiavi attraverso la musica , suonata sul banjo che ogni guida portava con sé: erano i cosiddetti spirituals d fuga, vere e proprie canzoni in codice che – a chi le sapeva capire – indicavano la via della fuga. Nel romanzo ho inserito i testi di queste canzoni e i link per ascoltarle su You Tube.

I protagonisti del romanzo sono un ragazzino, Tommy, e il grande Peg Leg Joe, la guida che accompagna i fuggiaschi. Che significato ha la loro amicizia?

Tommy scappa insieme alla sua famiglia e durante il viaggio si rende conto che vuole diventare anche lui una guida, come Peg leg Joe: lui è l’amico che tutti vorremmo avere, grande di stazza e d’animo, burbero ma generoso, profondo nelle conoscenze. Il viaggio con lui per Tommy è formazione, crescita, consapevolezza di sé .

Le amicizie tra un ragazzo e un adulto, quando ci sono, diventano fondamentali per entrambi. Tommy non sa come comunicare a suo padre la scelta di diventare guida, è convinto che non lo capirà, ma saprà trovare il coraggio di parlargli e comunicargli cosa ha intenzione di fare.

Nel mondo in cui viviamo la schiavitù esiste ancora, e molti diritti fondamentali vengono negati proprio a partire dall’infanzia. Storie come quelle che lei scrive possono aiutare i lettori a capire che non viviamo nel migliore dei mondi possibili?

Oh, freedom potrebbe essere il titolo di tutti i miei romanzi, a partire da Storia di Iqbal , e secondo me questa storia è attualissima perché oggi viviamo in un mondo in cui ci sono ancora schiavi, un mondo povero, in cui ci sarebbe bisogno di altre underground railroad.

Lo dico sempre nei miei incontri con i ragazzi: noi siamo apparentemente liberissimi, ma subdolamente qualcuno cerca di toglierci la libertà di pensare con la nostra testa, e io non scrivo storie per dare risposte ma perché ai ragazzi venga venga voglia di fare domande, di voler capire, “di rompere le scatole”. Il lieto fine , nelle mie storie, non è sempre assicurato (come accade in Storia di Iqbal ), e i protagonisti sono ragazzi normali, che però trovano il coraggio di fare la scelta giusta. Gli eroi non sono quelli dei telefilm. Esiste sempre una parte giusta e una sbagliata, e fare le cose giuste, anche con il mal di pancia, serve a crescere.

In un articolo di Carla Ida Salviati (pubblicato sulla rivista Andersen, n. 259, 2009), lei viene definito “militante dell’indignazione”: si ritrova anche oggi in questa definizione?

La definizione è assolutamente azzeccata, e non è un caso se ho scelto di raccontare certe storie e non certe altre a ragazzi e adolescenti. Io provo a raccontare il mondo in cui vivono, che è tremendamente difficile da decifrare e decodificare. Credo che i romanzi che raccontano la realtà siano il modo migliore per conoscere la realtà stessa, e sono convinto che un romanzo racconti la realtà meglio di un qualunque programma televisivo o inchiesta giornalistica: nel romanzo ci sono parole, emozioni, complessità.

Scrivo queste storie perché sono indignato, arrabbiato, e non riesco a rimanere indifferente di fronte alle storie che leggiamo tutti, alle immagini che vediamo in televisione, alle testimonianze, alle voci, alle facce. Quando avevo vent’anni andavo a manifestare questa indignazione nelle piazze perché c’era la guerra nel Vietnam piuttosto che una dittatura feroce in Spagna, o perché chiudevano le fabbriche: adesso che ho qualche anno di più e faccio lo scrittore la mia indignazione si trasforma in storie che vogliono far pensare e magari anche indignare.

Ho l’impressione che la nobile arte dell’indignazione si stia perdendo o comunque annacquando e invece io voglio provare a raccontarla ai ragazzi.

Lei è uno scrittore che “gioca alla pari” con i suoi lettori e non li sottovaluta, anche dal punto di vista linguistico. Perché?

Io non scrivo romanzi “per ragazzi”, me ne guardo bene. Io scrivo per degli adulti che hanno undici, dodici, tredici, quattordici anni . Non mi pongo, quando scrivo, nessun problema di storia, di contenuto, di linguaggio, perché mi rivolgo a un adulto con qualche anno di meno. Racconto qualunque tipo di storia – dure, drammatiche, senza lieto fine – il problema è trovare le parole giuste per raccontarle. Il linguaggio che uso non fa sconti a nessuno, non abbasso il tono perché sono di fronte a un dodicenne che non usa bene i congiuntivi.

Ogni tanto mi capita di leggere cose troppo semplicistiche, mentre io con i lettori gioco alla pari e riempio i miei romanzi di “parolone” come Libertà, Diritti. Credo che i ragazzi lo apprezzino, me ne rendo conto incontrandoli, in giro per tutta l’Italia. Hanno bisogno di “paroloni”: mi guardano con gli occhi sgranati e capiscono che gli sto dando qualcosa di vero.

Ha qualche consiglio da dare agli insegnanti della scuola primaria per proporre i libri ai ragazzi senza imposizioni né forzature?

Credo che le insegnanti di scuola primaria in generale siano molto in gamba. Oh freedom! viene letto a partire dalla classe quarta , così come in tante classi, con la mediazione della maestra, è stato letto Storia di Iqbal .

Quando incontro i ragazzi delle primarie per me è “festa grande” perché sono acuti lettor i, svegli, attenti, abituati a saltare dentro alle storie fino alle orecchie. Alla fine il trucco è questo, e le insegnanti di scuola primaria lo sanno bene: leggere deve essere divertimento e passione e ciò che deve fare l’adulto è “passare passione”.


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