Articoli
Le parole che feriscono
Non esistono parole neutre: Benedetta Baldi, professoressa ordinaria di Didattica delle lingue moderne (Università di Firenze), ci spiega perché

Come fanno le parole a discriminare e offendere?
Le parole, oltre a riferirsi a cose e persone, attribuiscono loro un (pre)giudizio, una valutazione. Questa seconda operazione è meno appariscente ma più importante dal punto di vista delle relazioni sociali poiché, quando si parla, si esprime molto più di ciò di cui abbiamo coscienza e del semplice parlare di qualcosa. Si giudica e si colloca ciò di cui si parla in una cornice generale, ovvero in un frame cognitivo. Il frame cognitivo è il modo di vedere e comprendere le cose che deriva dai rapporti sociali, dall’educazione e da tutti quei fattori che creano il comune sentire, la cultura nella quale siamo immersi. Così, quando parliamo di “emigranti” due universi cognitivi si aprono negli interlocutori: quello che li collega al rischio per la sicurezza e alla differenza, e quello che li collega all’integrazione e all’inserimento. Una nozione importante come quella di “libertà” richiama frame diversi, a seconda delle culture e dei popoli. Anche nel nostro mondo occidentale, la libertà neoliberista è diversa da quella di ispirazione sociale, la libertà intesa come rispetto dei diritti di ciascuno è diversa dalla libertà individualistica.
In realtà capirci, usando il linguaggio, non è un meccanismo facilmente spiegabile: gli interlocutori ricostruiscono una visione delle cose utilizzando, certo, le parole proferite o ascoltate. Ma queste sono solo un indizio per un telaio più ampio, che le mette in rapporto con quello che si conosce e con quello che si prova. Walter Lippmann (2004[1922]): 19) ricorda che ‘ciò che l’individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa, ma su immagini che egli si forma o che gli vengono date’. In questo senso, l’individuo trae le proprie immagini dal mondo nel quale è avvolto e, in particolare, dai mezzi di comunicazione. Parlare è creare mondi, richiamare significati collettivi, cioè condivisi: le parole li evocano e li portano con sé.
Quando si accende questa capacità di evocare modi di pensare e sentimenti?
Si accende quando usiamo le parole per comunicare, cioè le prendiamo dal vocabolario, dove sembrano semplici etichette, e le inseriamo in una frase per parlare agli altri, rivolgendosi a loro, e per parlare degli altri. Gli studiosi di comunicazione ce lo ricordano: il senso di un enunciato dipende dalle parole che contiene, ma solo in combinazione con l’intenzione di chi parla e con tutte quelle informazioni che vengono dalla situazione e dai nostri quadri concettuali. Con il linguaggio quindi agiamo, e le azioni, come sappiamo bene, provocano effetti, uno dei quali è la discriminazione, di genere o razziale. Sotto le parole e le frasi ci siamo noi, i parlanti, con i nostri immaginari e le nostre emozioni: l’unico vero fattore in gioco è chi usa la lingua, come e a quale fine. È per questo che le parole possono essere violente e ferire, perché tramettono significati nascosti, come il rifiuto, la segregazione, la diminuzione della persona. È il caso, spesso, del lessico di genere, a partire dai titoli professionali, che riecheggiano una differenza di potere e di ruolo tra maschi e femmine. Così, ad esempio, se giudico una persona “un ottimo maestro” posso far pensare a un insegnante della scuola primaria come a un maestro di musica o a una persona di grande cultura, mentre “un’ottima maestra” evocherà solo le capcità dell’insegnamento della scuola primaria, generando quindi frame e immaginari fissati culturalmente, e più limitati, in corrispondenza del nome femminile. Ma lo stesso vale per “direttore” e “direttrice”, e per molte altre coppie, dove il maschile include attività di diverso prestigio e di alto livello, rispetto al più specifico (e talvolta discriminatorio) femminile, come in “segretaria” rispetto a “segretario”, che può designare ruoli amministrativi di potere. I frame di genere sono radicati al di là di quello di cui si ha coscienza, basti pensare all’esemplificazione nel linguaggio scientifico, che è al maschile, come, ad esempio, nei libri di grammatica dove il pronome di 3° persona singolare è immancabilmente “egli” (ad esempio, “egli legge”), mentre “ella” sembra dimenticata.
Le parole non sono mai neutre...
Quindi, nessuna parola usata è innocente o neutra, ma ogni parola, appena la pronunciamo si trascina dietro le cornici cognitive nelle quali è ed è stata usata, cornici cognitive che organizzano le nostre conoscenze e le nostre emozioni. Nemmeno le parole per ferire, quelle che De Mauro (2016) ricorda avere connotazione negativa, di per sé feriscono, fino a quando qualcuno non le attribuisce a un interlocutore. Questo vale per le parole che evocano stereotipi (come zulù, zingaro), quelle in genere a sfondo sessuale che richiamano pregiudizi e modelli culturali socialmente condannati, ma anche quelle che di per sé sono neutre, come signora, ma che un ghigno o un’intonazione possono trasformare in offesa. La questione del linguaggio di genere include molti ambiti e aspetti, in parte anche fortemente ideologici. Pensiamo, ad esempio, al tema sollevato da alcune studiose riguardo al genere grammaticale come riflesso di disuguaglianze, come in “Cari colleghi…” riferito a un insieme di persone di sesso diverso, di contro a “Care colleghe…”, che invece includerebbe soltanto donne e sarebbe quindi più specifico e, di conseguenza, discriminante rispetto al maschile generico. Per questo motivo viene suggerita la cancellazione, mediante un asterisco o altri espedienti grafici, di –i del plurale in riferimento a un insieme non specificato per genere(?), per sesso(?), di persone. Una sorta di drammatizzazione solo grafica, che non vuole accettare il carattere di semplice plurale che ha la desinenza –i in italiano.
...perché la lingua non è mai "neutrale"
Se consideriamo i termini che nella nostra lingua designano l’essere di genere femminile, vediamo che derivano dal latino mulier “donna”, femina “femmina, donna”, soror “sorella”: queste parole rispecchiano una società e le sue regole, perse nella notte dei tempi. Mulier è, secondo un’etimologia autorevole, “colei che macina (il grano)”, femina “colei che allatta” e soror “la donna del proprio clan”. Un mondo patriarcale, che discriminava i ruoli e che risalirebbe agli albori della storia umana. Certo, ormai i termini per il genere femminile non evocano più ruoli di mondi lontani, ma conservano un importo semantico che può essere ugualmente discriminatorio. La lingua, infatti, non è “neutrale”, e in particolare non lo è la costruzione simbolica che essa attiva: le forme usate per designare donne hanno una componente dispregiativa non tanto per l’uso di questo o quel suffisso, ma per il significato al femminile delle voci come avvocat-o/-a/-essa, in quanto risultato della discriminazione linguistica che trasferisce nel lessico e nella morfologia il discredito rivolto alle donne che intraprendono carriere non ritenute idonee al loro sesso, come abbiamo visto sopra. Sono passati già trent’anni da quando Alma Sabatini richiamava l’attenzione sulla necessità di promuovere un uso dell’italiano attento al rispetto delle differenze di genere ma, nella pratica, resta diffusa la tendenza a prediligere il titolo maschile a quello femminile. Tra l’altro, sono spesso proprio le donne ad accordare tale preferenza, nella convinzione che il titolo si riferisca al ruolo ricoperto e non alla persona che lo ricopre. La sensazione è che tale tendenza sia l’espressione della difficoltà ad accogliere l’idea che certe funzioni possano essere svolte dalle donne e che, nel caso, queste necessitino almeno di un titolo al maschile per vedersi riconosciuto il ruolo.
Riferimenti bibliografici
De Mauro, Tullio. 2016. ‘Le parole per ferire’, Internazionale 27.09.2016: 1-6.
Lippmann, Walter. 2004[1922]. L’opinione pubblica, Donzelli, Roma.
Sabatini, Alma. 1987. ‘Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana’. In A. Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma.
Ti interessano i temi legati alla parità di genere? Visita la nostra pagina GIUNTI ALLA PARI