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Il linguaggio dell'odio

Internet e i social network rappresentano l'ambiente ideale alla diffusione del linguaggio dell'odio, o "hate speech". La scuola può svolgere un ruolo centrale nel favorire un'educazione alla comprensione reciproca, senza discriminazioni

di Benedetta Baldi24 gennaio 20221 minuto di lettura
Il linguaggio dell'odio | Giunti Scuola

 

Secondo la Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI) il linguaggio dell’odio, “hate speech”, comprende sia l’incitamento alla degradazione, sia il ricorso a soprusi, offese, stereotipi negativi nei confronti di persone o gruppi in base a razza, origine etnica, genere, religione e disabilità. Il linguaggio dell’odio affonda le sue radici negli stereotipi e nelle culture che, inconsapevolmente o meno, esiliano le persone nel rifiuto e nell’umiliazione. Esiste da quando esistono i rapporti di potere, e sfrutta la discriminazione evocata da parole usuali (come “razza”, “scimmia”, “rom”), da epiteti triviali o da espressioni sprezzanti, come quando negli stadi viene gridato “mangia le banane” a giocatori di colore. Le parole, quindi, sono sufficienti a creare l’odio e l’umiliazione del destinatario: il razzismo, la discriminazione di genere e altre forme di oltraggio delle persone si alimentano delle parole che usiamo. È il linguaggio, quindi il nominarle, a renderli operanti nelle nostre menti (Butler 1997), e a suscitare gli stereotipi negativi associati a certi termini. Come ci ricorda De Mauro (2011), ad esempio, riferirsi a un omosessuale con uno dei tanti termini dialettali significa trascinare con sé i pregiudizi che spesso le culture tradizionali hanno nei confronti di chi non corrisponde a ciò che è considerato normale. Chiamare “negro” o “zingaro” una persona significa rendere vivi i retaggi di secoli di disprezzo e di odio.

Oggi il linguaggio dell’odio trova il suo ambiente ideale su Internet e sui social, dove la violenza verbale è l’espressione di emozioni legate a disuguaglianze e insicurezze profonde nella coscienza delle persone. Il linguaggio d’odio non emerge casualmente, ma rispecchia, in molti casi, universi cognitivi e sensibilità comuni radicati in tutto il contesto sociale, inclusi i poteri che dovrebbero combatterli. Anzi, i fatti di cronaca recenti, negli USA come in Europa, ci ricordano come gli stessi pregiudizi che alimentano l’odio possono essere condivisi dagli organi del potere e dagli stessi destinatari. Basti pensare alle posizioni  di “legge e ordine” di Donald Trump in merito alle manifestazioni antirazziste del 2020, o al caso di Beizaras e Levickas, oggetto di attacchi omofobi per una foto su Facebook, che hanno trovato l’ostilità delle autorità lituane (Tumminello 2021).

 

La violenza verbale

La violenza verbale, specialmente nei confronti delle donne, assume per esempio pesanti contenuti a sfondo sessuale, come nel caso delle ingiurie indirizzate al profilo Facebook della Presidente della Camera Laura Boldrini (anno 2018), in quanto sostenitrice dei diritti degli immigrati: “Boldrini se ci fosse una rivoluzione saresti la prima a crepare... grandissima p******”, “Sei solo un p******”. L’altro grande spazio dell’odio online è la discriminazione a sfondo razzista per cui, spesso, le parole e le azioni di cittadini e cittadine di origine africana sono oggetto di attacchi violenti, quali quelli contro Rama Malik, che dopo aver annunciato la sua adesione a un movimento politico, ha ricevuto una tempesta mediatica (shitstorm) di espressioni umilianti, come “mi chiamo Rama e sono una scimmia”, “ma vai a battere nel tuo paese…” eccetera. Messaggi nei quali emerge la deumanizzazione (scimmia) e la rappresentazione denigratoria che richiama disuguaglianza e sottomissione. La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, nel contrastare le espressioni d’odio, ha un compito particolarmente delicato e sfuggente, perché spesso l’offesa è evocata piuttosto che esplicita, ma, nello stesso tempo, non deve perdere di vista il diritto a una libera espressione del pensiero sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (Tumminello 2021).

 

Mass media e social: comunicazione emotiva e non argomentata

I nuovi mezzi di comunicazione hanno un effetto importante nel rafforzare le componenti emotive e irrazionali delle narrazioni online. Il linguaggio dell’odio li utilizza come luogo di forme di comunicazione emotiva e non argomentata, nel quale le differenze socio-culturali trovano un’efficace cassa di risonanza. Il “Barometro dell’odio” (Amnesty International, online) evidenzia che nella distribuzione dei tweet negativi totali, nel 2020, occupano il primo posto le donne (49,91%), seguite da ebrei (18,45%), migranti (14,40%), islamici (12,01%), persone omosessuali (3,28%) e persone con disabilità (1,95%). La misoginia risulta ancora preponderante: “Oltre agli onnipresenti atteggiamenti di body shaming (deridere qualcuno per il suo aspetto fisico), molti attacchi hanno avuto come contenuto la competenza e la professionalità delle donne stesse” (p. 48). Questo riguarda anche e soprattutto le nuove generazioni, se è vero che il 79% dei giovani tra gli 11 e i 18 anni passa più di 4 ore al giorno sui social. I più giovani, quindi, entrano nel linguaggio di Internet e dei social come nativi fin dall’inizio delle loro esperienze di socializzazione, di crescita e di formazione cognitiva. La familiarità precoce con lo smartphone o le piattaforme social si rispecchia nella specifica organizzazione dei messaggi, dei contenuti e del linguaggio che il mezzo fornisce. 

 

La scuola e l’educazione alla comprensione e alla riflessione inclusiva

L’aspetto più immediato è che i social network permettono di creare un’identità di rete personale manipolabile dall’utente in modo da presentarsi come preferisce. L’assenza di mediazione indebolisce la capacità di distinguere la realtà dalla finzione, rendendo meno riconoscibile il vero dal verosimile e sovrapponendo il vissuto alla verità. Questo potere rende irresponsabili gli emittenti come i riceventi, in un processo nel quale cyberbullismo e sexting, tra gli altri esiti, si accompagnano alle diverse forme di linguaggio dell’odio. Irresponsabili, perché questo è il linguaggio acquisito in questa dimensione del comunicare dove i messaggi sono rapidi, immediati e istintivi, e tutto è individualizzato (Faloppa 2018), ma, sottolineo, proprio per questo non individuale. I messaggi non ragionati sono specchio di una riflessione parziale, frutto di pregiudizi e scorciatoie fornite dagli stereotipi culturali (Petty e Cacioppo 1986). È qui che oggi si inserisce con particolare virulenza la questione del discorso che ferisce, delle parole dell’odio. Non a caso possiamo caratterizzare l’uso manipolativo e misinformativo prodotto dai social, e più in generale sul web, come il risultato di disuguaglianze cognitive radicate nel corpo sociale. Dove gli attacchi verbali violenti alle élites e all’establishment e l’odio sessista o razzista sono manifestazione di profonde insicurezze e di squilibri, legati alla ricerca di culture alternative da parte delle classi giovanili e delle subculture orientate al rifiuto e polarizzate. Il richiamo a un’Educazione equa e sostenibile dell’Agenda 2030 affida alla scuola un compito centrale a favore di un’educazione alla comprensione reciproca, senza discriminazioni (cf. Perfetti 2020). Fin dalla scuola primaria, e in base ovviamente alle esigenze, alle peculiarità e alle richieste della classe, possiamo immaginare percorsi in direzione di una comunicazione fondata sulla riflessione inclusiva e sull’attenzione critica, nei quali ad esempio il mondo reale è messo in relazione con le narrazioni e i messaggi sui social:

  1. creare sui social forme di “disputa felice” (Mastroianni) o narrazioni riflessive, in cui i giudizi e le proposte sono frutto di un’argomentazione fondata su premesse e motivazioni chiare e su conclusioni a loro volta confutabili;
  2. individuare e commentare le parole e le espressioni di disprezzo contenute nei messaggi, leggendole criticamente e scoprirne i presupposti non detti e le scorciatoie cognitive adottate;
  3. e soprattutto, cooperare all’interno delle classi per favorire la comunicazione condivisa e comprensiva di punti di vista e di culture diverse, l’inclusione e la consapevolezza.

Riferimenti bibliografici

Butler, Judith. 1997. Excitable Speech. A Politics of the Performative, Routledge, London & New York.

De Mauro, Tullio. 2016. ‘Le parole per ferire’, Internazionale 27.09.2016: 1-6.

Faloppa, Federico, 2011. Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Laterza, Bari.

Mastroianni Bruno, 2017. La disputa felice. Firenze, Cesati.

Perfetti, Simona. 2020. ‘Il fenomeno dell’hate speech e la cultura digitale.La scuola degli affetti come bene comune’. Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education, 24, 56: 110-131.

Petty, Richard E. e John T. Cacioppo. 1986,  Communication and Persuasion. Central and Peripheral Routes to Attitude Change, Springer-Verlag, New York.

Tumminello, Fabio. 2021. ‘Ai tempi dell’odio: linguaggio, hate speech e diritti umani’, Iusinitinere.it, 23.11.2021.

 

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