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Donne nella scienza, ieri e oggi
A partire da “Ragazze con i numeri”, scritto con Roberta Fulci per Editoriale Scienza, Vichi de Marchi racconta come e perché le ragazze sono (ancora) in minoranza nella scienza. Ma a scuola possiamo fare molto

“Ragazze con i numeri” è dedicato alle storie delle grandi scienziate. Partiamo dalla domanda più ovvia, ma anche più complessa: perché le scienziate del passato sono così poche?
Sicuramente perché hanno avuto percorsi difficili, pensiamo all’Ottocento, quando a tantissime era precluso lo studio universitario. Ci sono ragioni oggettive che hanno impedito alle donne di studiare e diventare scienziate. Però c’è anche un elemento di non valutazione del contributo delle donne alla scienza, che è in parte stato sottostimato, e in parte misconosciuto. Con Roberta Fulci abbiamo scritto due volumi in cui raccontiamo storie di scienziate. Nell’ultimo libro, “Ragazze per l’ambiente”, c’è fra l’altro la storia di Eunice Newton Foote, la prima donna a scoprire i gas serra nell’Ottocento: però lei non poteva leggere ai convegni le sue ricerche, perché dovevano essere lette da un uomo. Oppure in “Ragazze con i numeri” raccontiamo il lavoro di Rosalind Franklin, una chimica che per prima rese in modo particolarmente chiaro le immagini della struttura del DNA. Ma il Nobel fu preso da altri, da Watson, Crick e Wilkins, e il suo contributo verrà riconosciuto solo molto più tardi, dopo la morte. Quindi c’è questo effetto di oscuramento, che è stato chiamato anche “effetto Matilda” da Matilda Gage, una femminista americana che per prima denunciò questo oscuramento del contributo delle donne alla scienza. Queste sono alcune delle ragioni per cui abbiamo la sensazione che l’apporto delle donne scienziate sia stato molto ridotto rispetto a quello degli uomini.
In Italia solo il 16,5% delle giovani si laurea in facoltà scientifiche, contro il 37% dei maschi. Perché le scienziate sono ancora oggi così poche?
Intanto è interessante vedere come in quella percentuale di giovani che si laurea nelle facoltà scientifiche prevalgano le lauree in biologia, in medicina, facoltà in un certo senso lontane da quelle considerate le materie scientifiche “dure” come ingegneria o simili. C’è sicuramente una difficoltà delle ragazze nell’affrontare il mondo dello studio scientifico, e questo nonostante siano mediamente più numerose nelle università e si laureino prima e meglio, in generale, dei ragazzi. Io credo che ci siano numerosissimi fattori che contribuiscono a questo, uno innanzitutto è rappresentato dalla montagna di stereotipi che costella la vita delle ragazze, dalla casa alla scuola. Molti studi ci raccontano come, sin dalle elementari, ci sono dei solchi formativi su cui le ragazze, anche inconsapevolmente, vengono indirizzate con l’idea che i bambini siano più portati per la matematica e le bambine più per le materie letterarie. Già alla fine della quinta elementare c’è, come ci dicono anche i test Invalsi, questo differenziale, “effetto Pigmalione” lo chiamano, per cui si valorizzano delle competenze che noi adulti immaginiamo siano più presenti nei maschi che nelle femmine, e poi via via questa diversità cresce. C’è anche un elemento che riguarda l’insegnamento della scienza a scuola: pochi laboratori, poca percezione dell’utilità della scienza nella realtà e una scarsa fiducia delle ragazze nelle proprie possibilità e capacità. Qualcosa sta cambiando, ad esempio sempre più sono le giovani ricercatrici italiane che si aggiudicano finanziamenti europei, che lavorano all’estero e che sicuramente stanno mostrando il loro valore. Però ancora c’è molta strada da fare.
Torniamo a “Ragazze con i numeri”. C’è un filo rosso che accomuna le storie di queste donne?
Ci sono delle costanti: innanzitutto si tratta sempre di ragazze che hanno seguito una passione che spesso si è manifestata fin dall’infanzia. Ci sono quasi sempre, nelle vite di queste giovani donne o bambine, delle figure di riferimento molto forti, spesso maschili - soprattutto per le giovani donne cresciute in altre epoche nell’Ottocento o a inizio Novecento, - che le hanno incoraggiate e che hanno creduto in loro. E poi c’è una grande tenacia nel far valere le proprie ragioni. Femministe dichiarate o meno, quasi tutte hanno dovuto combattere per affermarsi in quanto scienziate donne. Poi le diversità delle vite, degli ambiti di studio, delle condizioni materiali sono fortissime: noi per prime abbiamo sempre cercato di raccontare vite di scienziate che provenivano da ambienti diversi e di dar conto di discipline anche distanti tra loro perché è giusto mostrare che la scienza non è solo occidentale, non è solo europea.
Raccontare la scienza non è semplice, ma è una sfida fondamentale per la scuola e non solo. Come avete costruito queste bellissime biografie? Come si mette in luce la dimensione “narrativa” e avventurosa della scienza?
Innanzitutto è un lavoro che richiede un’approfondita documentazione sulla vita, l’infanzia, i percorsi di studio delle scienziate. Per alcune, più recenti, è stato possibile attingere anche da interviste, per altre si è trattato più di un lavoro di ricerca sugli archivi, di scavo in materiali anche accademici. Abbiamo adottato un metodo che è un po’ quello della narrativa di tipo divulgativo: leggere molto e cercare di capire quali sono gli snodi, i punti di svolta nella vita, i momenti significativi. Abbiamo anche selezionato vite che avessero intrecci interessanti e una forte dimensione di avventura. E poi abbiamo messo assieme emozione e razionalità, emisfero destro e sinistro, per agganciare il lettore con una storia che fosse appassionante e che, allo stesso tempo, raccontasse la scienza. Abbiamo cercato, inoltre, di dimostrare che sono vie percorribili. Tante volte ho pensato che se da ragazzina avessi potuto leggere storie come queste, ad esempio la storia dell’astronoma Vera Rubin, magari mi sarei appassionata e avrei scelto di studiare Astronomia. Infine, penso ci sia anche una riscoperta in generale della narrazione a sfondo storico applicata alla scienza e, nel nostro caso, alla scienza al femminile.
I pregiudizi, spesso inconsci, secondo cui le ragazze sono meno portate allo studio della scienza sono ancora molto radicati. La scuola può fare tanto: da dove si parte?
Tanti stereotipi sono introiettati dalle ragazze, sono le ragazze stesse che li agiscono. Nell“Atlante dell’infanzia a rischio in Italia” (2021, sito) che ho curato per Save the Children, un capitolo è dedicato alla cittadinanza scientifica: dall’indagine commissionata a IPSOS su un campione di 1000 ragazzi e ragazze emerge l’allontanamento progressivo delle ragazze dalla scienza, soprattutto alle scuole superiori. Io credo che ci siano tre elementi fondamentali da considerare o da auspicare : uno, che la scienza venga insegnata “dal vivo”, applicando anche a scuola il metodo scientifico, potendo contare su aule-laboratorio di scienza dov provare e riprovare, sperimentare, compiere osservazioni. In secondo luogo, noi abbiamo sempre pensato che da una parte ci fosse il mondo umanistico e dall’altra il mondo della scienza, per cui o si sceglie o uno o l’altro. Oggi, invece, sempre più si capisce che non possono essere mondi separati: l’umanesimo ha bisogno della scienza e la scienza ha bisogno dell’umanesimo, ed è quindi necessaria la presenza di facoltà scientifiche dove, ad esempio, si insegni la filosofia, oppure facoltà umanistiche dove si trasmettano i fondamenti della fisica, della matematica o della chimica. Questo dialogo fra discipline può essere applicato a qualsiasi livello scolastico e può aiutare ad avvicinare le ragazze al mondo della scienza. L’ultima cosa: a scuola - penso a medie, superiori, primaria, qualsiasi livello - bisogna cercare di raccontare anche il mondo che verrà, l’intelligenza artificiale e tutte le sue applicazioni: cosa significa se le ragazze non diranno la loro? Ci sarà una replicazione di stereotipi, di catene che le terranno ancora lontane da molti traguardi: quindi è interesse della società e delle ragazze essere presenti nei nuovi ambiti scientifici.
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