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A tu per tu con gli esperti

&quot;La scuola teatro di cittadinanza&quot; Con Graziella Favaro e Franco Lorenzoni

La scuola teatro di cittadinanza: questo &egrave; il tema di una puntata di A tu per tu con gli esperti, la serie di interviste di Giunti Scuola per chi insegna alla primaria. Gli esperti scelti per ragionare&nbsp; su questo argomento sono Graziella Favaro, fondatrice della rivista Sesamo, dedicata all&rsquo;italiano L2 e anche direttrice scientifica del progetto Giunti Scuola Parole al centro, e Franco Lorenzoni, maestro, scrittore e collaboratore di Sesamo e di Giunti Scuola da tanti anni.

 
Graziella, tu hai un punto di osservazione privilegiato e prezioso per noi: com&rsquo;&egrave; fatta oggi la scuola primaria italiana, chi c&rsquo;&egrave; in classe?

Graziella Favaro: La scuola italiana &egrave; in grande cambiamento da alcuni anni, non da ieri: &egrave; un cambiamento demografico ormai consolidato e strutturale. 
Per esempio, i dati recenti che il Ministero ha reso noti continuano a dirci come la scuola italiana sia popolata da bambini, ragazzi e quindi anche famiglie con storie, provenienze, lingue diverse. 
Nella scuola primaria, sui 915.000 alunni di nazionalit&agrave; non italiana presenti nella scuola, i bambini che hanno quindi una cittadinanza diversa sono mediamente il 13 %. Ma in alcune regioni, come Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, sono gi&agrave; il 20 %. 
Quindi una scuola dove quella che viene definita &ldquo;super-diversit&agrave;&rdquo; &egrave; diventata davvero la realt&agrave; quotidiana. Le differenze sono la ricchezza e l&rsquo;ordinariet&agrave; delle classi. 
 
Franco, le classi in cui hai insegnato erano fatte cos&igrave;? E cosa fa l&rsquo;insegnante quando deve insegnare in una classe eterogenea?

Franco Lorenzoni: L&rsquo;elemento chiave &egrave; l&rsquo;atteggiamento dell&rsquo;insegnante. Se uno si concentra solo sulla fatica &mdash; perch&eacute; sicuramente insegnare in una classe omogenea comporta minor lavoro, minore preparazione, minore sensibilit&agrave; &mdash; oppure se uno pensa che quella sia una grande opportunit&agrave; per ripensare tante cose, per rimettersi in gioco. 
Mi ha colpito moltissimo un intervento recentemente pubblicato da Rama Nour, una delle rare maestre nere delle scuole italiane, che lavora nella primaria, la quale, nella voce &ldquo;razzismo&rdquo; di un bel volume appena uscito, Alfabeto della scuola democratica, ragiona e spiega il suo punto di vista. 
C&rsquo;&egrave; una frase che dice, che mi sembra interessante per noi, per ragionare sul teatro della diversit&agrave; e della cittadinanza: &laquo;Perch&eacute; evitare di dare etichette, di dividere gli studenti in autoctoni e non, definirli minoranza di origine diversa, di colore? Perch&eacute; non lasciare che siano loro a scegliere come definirsi?&raquo; 
&Egrave; una piccola frase &mdash; lei parla molto del suo vissuto come nera dentro un&rsquo;istituzione come la scuola, e di tutte le cose che le accadono, sia in modo positivo sia negativo, ma comunque sempre in modo un po&rsquo; diverso dagli altri. 
E questo lasciare che siano loro a scegliere come definirsi mi sembra un elemento chiave. &Egrave; il tempo necessario a fare in modo che nessuno si&nbsp; senta discriminato. &Egrave; un lavoro molto difficile, molto lungo, perch&eacute; l&rsquo;atteggiamento degli insegnanti certe volte non si accorge di alcuni clich&eacute; dei quali siamo impregnati, come cultura. Non ci accorgiamo che in alcuni&nbsp; libri di testo ci sono espressioni poco rispettose rispetto ad altre origini, ad altri luoghi del mondo. 
C&rsquo;&egrave; una bella frase di Piero Calamandrei che dice che la scuola &egrave; il luogo dove avviene il miracolo di trasformare i sudditi in cittadini. Questa trasformazione, che ovviamente non &egrave; un miracolo, comporta innanzitutto dare tutti gli strumenti &mdash; linguaggio, cultura, consapevolezza &mdash; per ragionare in modo autonomo. Ma l&rsquo;altro aspetto &egrave; riconoscere la vera cittadinanza, cio&egrave;: noi siamo un paese in cui comunque la cittadinanza formale &egrave; negata alla grande maggioranza dei bambini figli di migranti, anche se nati qui. 
Siamo nella contraddizione tra leggi. Da una parte dobbiamo educare alla cittadinanza, dall&rsquo;altra sappiamo che alcuni di loro non sono cittadini a pieno titolo. Siamo un po&rsquo; su questo crinale. 
E allora &egrave; importantissimo ci&ograve; che facciamo insieme, come creiamo comunit&agrave;. Questo &ldquo;teatro&rdquo; che avete evocato nel titolo &egrave; il luogo in cui la comunit&agrave; si costruisce. E secondo me c&rsquo;&egrave; comunit&agrave; solo quando c&rsquo;&egrave; curiosit&agrave; reciproca. Altrimenti il rischio &egrave; accettare anche inconsapevolmente una gerarchia &mdash; e le gerarchie sono chiaramente nemiche della cittadinanza, che si fonda su un&rsquo;uguaglianza di fondo.

Graziella, ricordo un racconto che avevi condiviso: una giornalista, all&rsquo;uscita di una scuola primaria, aveva chiesto a un bambino con genitori di origine peruviana: &ldquo;Ma tu di dove sei?&rdquo; E lui rispose: &ldquo;Io sono della terza B.&rdquo; Perch&eacute; lui si sentiva di far parte della terza B. A volte &egrave; proprio questo: conta come ci poniamo, come diceva Franco, conta il linguaggio, contano le azioni quotidiane in questo teatro. Ma come si fa a costruire cittadinanza, giorno per giorno?

Graziella Favaro: Oltre alla frase del bambino peruviano &mdash; &ldquo;della terza B&rdquo; &mdash; mi viene in mente un altro dialogo, tra nonno e nipote, all&rsquo;uscita da una scuola multiculturale di Milano, nella periferia. Il nonno chiede al bambino: &ldquo;Ma quanti stranieri ci sono nella tua classe?&rdquo; E il bambino risponde: &ldquo;Nella mia classe non ci sono stranieri, ci sono solo bambini.&rdquo; 
Ecco, questa &egrave; la percezione che hanno i bambini: partono insieme nella stessa classe, fanno un viaggio fin da piccoli. 
Per questo dico che la scuola &egrave; pi&ugrave; avanti della realt&agrave;: la scuola ha fatto i conti in questi anni,&nbsp; non senza fatica, come diceva Franco, ma anche con creativit&agrave;, innovazione. Ha sperimentato esercizi di mondo, esercizi di cittadinanza attiva che insegnanti e bambini hanno vissuto in tutti questi anni di gestione delle differenze, di messaggi positivi (con tentativi che non siano discriminazione).&nbsp; A volte con errori: per valorizzare le provenienze di alcuni bambini si talvolta si cade nel folklorico. 
Allora, come si fa a fare cittadinanza nelle classi sempre pi&ugrave; eterogenee? Quello che diceva Calamandrei &mdash; &ldquo;da sudditi a cittadini&rdquo; &mdash; possiamo tradurlo oggi come un passaggio dalla dimensione &ldquo;io&rdquo; alla dimensione &ldquo;noi&rdquo;. Per tutti i bambini e i ragazzi, il viaggio nella scuola &egrave; il passaggio dalla dimensione privata, personale, familiare, soggettiva, a una dimensione pubblica, comune, universale, dove valgono regole e posture diverse da quelle di casa. 
Questo viaggio &egrave; un&rsquo;avventura, una fatica anche per i bambini e i ragazzi, ma &egrave; anche la scommessa, la sfida per far s&igrave; che la scuola e la classe diventino teatro di cittadinanza. 
Dentro la classe, tutti insieme &mdash; bambini e ragazzi &mdash; imparano attraverso le regole, le posture, le modalit&agrave; di stare insieme, le routine quotidiane, il rispetto vissuto, non solo predicato. Imparano a convivere, a fare parte non solo di una comunit&agrave; &mdash; un paese, una citt&agrave;, un quartiere &mdash; ma anche a sentirsi parte di quel quartiere e di quella scuola. 
&Egrave; a scuola che si impara a essere parte &mdash; e anche la percezione del far parte di un tutt&rsquo;uno, di una comunit&agrave;. 
A proposito di cittadinanza vissuta e appresa attraverso incontri, relazioni, storie... Come ci insegna Bruner, bambini e ragazzi imparano molto attraverso le storie. Mi viene in mente una testimonianza letta sulla rivista Vita qualche giorno fa, di una ragazza italo-senegalese, arrivata in Italia a 4 anni, unica italiana finalista tra i 50 partecipanti al Global Student Prize. Racconta come ha imparato a diventare cittadina italiana nella scuola, ed &egrave; orgogliosa di essere italo‑senegalese. 
Parliamo di una cittadinanza che tiene insieme una parte di s&eacute; italiana &mdash; qui &egrave; cresciuta, vive, studia &mdash; e una parte legata alla sua lingua, storia e famiglia. 
Racconta due incontri-chiave nella scuola primaria: l&rsquo;arrivo degli Alpini, che le hanno raccontato della bandiera, dell&rsquo;inno, delle loro storie. E una compagna che ha portato le lettere del bisnonno, dal fronte della Seconda Guerra Mondiale. Sono eventi che le hanno fatto dire: &ldquo;Mi sono sentita parte di questa storia.&rdquo; 
Ecco: non &egrave; solo importante farne parte, ma sentirsi parte di una storia. Orgogliosa della sua storia familiare e di essere cittadina del presente.

 
Franco, a proposito di raccontare e raccontarsi: &egrave; anche cos&igrave; che si costruisce cittadinanza?

Franco Lorenzoni: S&igrave;, e c&rsquo;&egrave; un altro strumento fondamentale e condiviso da tutte e tutti: la lingua, che &egrave; ci&ograve; che ci rende uguali. 
Io ricordo un episodio comico, di un ragazzo sudanese &mdash; padre italiano, madre sudanese &mdash; arrivato qui senza sapere una parola d&rsquo;italiano. Parlava solo arabo e inglese. Ha imparato l&rsquo;italiano anche giocando con i compagni pi&ugrave; che a scuola. 
Un giorno, stavamo parlando della gentilezza: chiesi a ognuno quando avesse incontrato la gentilezza. E chiesi anche a lui, a Peter (cos&igrave; si chiamava): &ldquo;Qual &egrave; stata la prima persona gentile che hai incontrato in Italia?&rdquo; 
Dopo averci pensato, rispose: &ldquo;Il mio cane.&rdquo; E poi aggiunse, con ironia: &ldquo;Perch&eacute; forse capiva l&rsquo;inglese.&rdquo; 
La frase di Peter mi ha colpito: gli animali non giudicano. E sospendere il giudizio &egrave; una grande qualit&agrave;. 
Dobbiamo sospendere il giudizio, azzerarlo almeno per un momento, moltiplicare le storie. Gi&agrave; questo sarebbe un gran regalo a questo teatro di cittadinanza. 
Perch&eacute; spesso siamo incastrati in un&rsquo;identit&agrave; che non ci appartiene davvero, e questo fa soffrire. Attenzione, perch&eacute;, come diceva quella maestra nera &mdash; Rama Nour &mdash;: non sorprendetevi se poi si autorsegregano. Cercano un posto sicuro per esprimere s&eacute; stessi, la loro diversit&agrave;, senza essere giudicati. 
L&rsquo;autoreclusione &egrave; un meccanismo di difesa per proteggersi dall&rsquo;essere umiliati. Sono frasi forti, ma &egrave; importante ricordarle, perch&eacute; in Italia ci sono ancora molte classi ghetto, dove inconsapevolmente creiamo piccoli ghetti. Bisogna stare attenti, bisogna opporsi. 
Non tollero sapere di classi composte quasi interamente da bambini immigrati in scuole dove altrove le classi non sono cos&igrave;, o di quartieri con due scuole e una &egrave; la &ldquo;scuola degli immigrati&rdquo; e l&rsquo;altra quella &ldquo;prevalentemente italiana&rdquo;. Se non contrastiamo culturalmente tutto ci&ograve;, il rischio &egrave; di avere scuole di serie A e di serie B &mdash; il contrario della cittadinanza, che richiede uguaglianza di possibilit&agrave;. 
L&rsquo;uguaglianza si costruisce mescolandosi. 
Il nostro impegno culturale pi&ugrave; difficile e necessario &egrave; dimostrare ogni giorno che una classe disomogenea &egrave; pi&ugrave; ricca culturalmente, ha pi&ugrave; possibilit&agrave; di aiutarci a capire il mondo. Questo &egrave; il pi&ugrave; grande impegno degli insegnanti in decenni difficili come questi.

 
In questa scuola che &egrave; teatro di cittadinanza, visto che la scuola &quot;&egrave; avanti&quot; come ci ricordate, speriamo sempre in un finale positivo; quest&rsquo;anno ci sono state novit&agrave; dal Ministero per l&rsquo;inserimento e l&rsquo;accompagnamento dei bambini e delle bambine di background migratorio, che ne pensate?

Graziella Favaro: Secondo me, le modalit&agrave; sono positive, abbastanza note, ma le risorse non sono mai sufficienti. 
Per esempio, in termini di lingua noto che &egrave; carente la formazione degli insegnanti su come i bambini neoarrivati apprendono l&rsquo;italiano, quanto tempo impiegano, quali materiali proporre. 
C&rsquo;&egrave; ancora molto da fare sul fronte della lingua, e sul riconoscimento del plurilinguismo: la lingua madre parlata a casa non va estirpata n&eacute; trattata negativamente, ma considerata un&rsquo;opportunit&agrave;, un valore aggiunto. 
Quindi bisogna aspettarsi di avere almeno un&rsquo;insegnante formata su italiano L2 in ogni scuola, in modo che non svolga soltanto laboratori occasionali per i neoarrivati, ma diventi una risorsa per tutti i colleghi. 
Negli ultimi anni la scuola italiana ha fatto molti passi avanti: ci sono pi&ugrave; materiali disponibili, pi&ugrave; attenzione alla diversit&agrave; linguistica. E ci si pu&ograve; informare grazie a molte risorse, anche gratuite. 
Ma rimangono criticit&agrave;: &egrave; in aumento la percentuale di classi con 40 % o pi&ugrave; di alunni di contesto migratorio &mdash; futuri cittadini a pieno titolo tra alcuni anni. A volte questi livelli di segregazione si verificano in situazioni scolastiche o quartieri dove potrebbe esserci maggiore mescolanza. 
Da una parte, passi avanti: didattica, materiali, informazione. Dall&rsquo;altra, la paura della mescolanza. 
La paura ostacola quegli &ldquo;esercizi di mondo possibile&rdquo;, quel mondo plurale che invece &egrave; urgente vivere fin da piccoli. Oggi &egrave; pi&ugrave; semplice iniziare da piccoli di quanto lo sia poi da adulti affrontare questi temi di convivenza e mescolanza.

Franco Lorenzoni: Mi piace concludere con un&rsquo;immagine positiva&hellip; Ricordo che qualche anno fa, a Giove, un piccolo paese umbro, venne ospitato un gruppo di giovani richiedenti asilo appena arrivati in Italia. Ci fu un certo fermento, una spaccatura nel paese: paure, resistenze, propaganda. 
I bambini, allora, si chiesero come insegnare ai loro genitori a sorridere quando incrociavano questi giovani &mdash; neri, venuti dall&rsquo;Africa &mdash; perch&eacute; a loro sembrava assurdo non salutarli, far finta di non vederli. 
Fu bellissimo: frutto di una grande discussione, di un ragionamento. 
Andammo a incontrarli, discuteremmo con loro, li invitammo a scuola. 
In quel caso la scuola, come dice sempre Graziella, era davvero pi&ugrave; avanti, un luogo aperto, mentre il paese invece manifestava tensioni. 
Ma l&rsquo;idea dei bambini &mdash; &ldquo;guardateli negli occhi, sorridete&rdquo; &mdash; ci ricorda che nei primi anni di et&agrave; siamo ancora un po&rsquo; vergini rispetto al pregiudizio che inquina il mondo adulto.

La scuola teatro di cittadinanza

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