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Come usare i dati Invalsi per migliorare la scuola
La primaria alla prova delle prove (Invalsi): che cosa possono fare il Ministero, la singola scuola, il singolo insegnante a partire dai risultati delle rilevazioni 2022

L’anno scorso sono stato ben felice di essere contraddetto (in meglio) dai risultati delle prove Invalsi della scuola primaria.
Vorrei allora fornire, anche quest’anno, una lettura personalizzata per insegnanti, dirigenti e genitori della scuola primaria, nell’attesa che ogni scuola possa studiare i propri risultati che saranno resi disponibili dalla prima metà di settembre.
In omaggio a Giancarlo Cerini, ispettore appassionato e infaticabile scomparso poco più di un anno fa, proverò a rispondere a una sua domanda scherzosa che talvolta poneva: “come lo diresti con un tweet?”, cioè con una frase di poche parole, più o meno quanto la lunghezza di questo ultimo periodo.
Ecco il mio “tweet”:
“Primaria bene alle prove Invalsi, ma meno dell’anno scorso. Ma chi ama la scuola primaria non può accettare i preoccupanti dati sull’equità. Alle scuole, alle comunità locali e alla politica il compito di porvi rimedio”.
Partiamo dai dati sulla qualità dell’apprendimento in italiano, matematica e inglese. Molti quest’anno si aspettavano qualcosa di più in considerazione dei dati straordinariamente buoni dell’anno scorso. Sfruttando le grandi potenzialità della piattaforma pubblica Tableau© dell’Invalsi possiamo, ad esempio, vedere l’andamento del punteggio medio in italiano delle classi quinte negli anni 2019, 2021 e 2022 (nel 2020 non si sono svolte le prove Invalsi a causa della chiusura delle scuole).
Effetto pandemia?
Come si vede, a livello nazionale, c’è stato un effetto quasi paradossale: nel 2022 il punteggio è inferiore a quello del 2021, che è stato il primo anno di rilevazioni dopo i lunghi periodi del lockdown.
Qualcuno potrebbe dire che se i ragazzi sono andati peggio quest’anno vuol dire che le prove erano più difficili rispetto a quelle dell’anno scorso. E questo stesso discorso potrebbe inficiare qualsiasi tentativo di confrontare i risultati da un anno all’altro. Non è così. Da diversi anni l’Invalsi ha adottato una tecnica che rende confrontabili anche i risultati di prove che presentano un livello di difficoltà non identico. È la cosiddetta tecnica dell’ancoraggio con la quale si possono “ritarare” i punteggi per collocarli sulla stessa scala1.
Risolto questo dubbio, resta da capire perché ci sia stato questo lieve calo. Non abbiamo una risposta sicura. Personalmente ritengo che nelle competenze più importanti e profonde, come quelle legate alla comprensione del testo e al ragionamento matematico, alcuni effetti possano farsi sentire maggiormente a lungo termine. Dobbiamo infatti considerare che gli alunni che hanno fatto le prove quest’anno hanno vissuto l’impatto della pandemia per tre anni, dalla terza alla quinta primaria. Diversamente da quelli che avevano fatto le prove l’anno scorso che hanno vissuto (scolasticamente) nella pandemia solo due anni, in quarta e in quinta. Potremmo anche vederla in un modo complementare: gli alunni di quest’anno hanno fatto una scuola normale (pre-pandemia) solo per due anni, in prima e in seconda primaria, mentre gli alunni dell’anno scorso avevano frequentato per tre anni, dalla prima alla terza, la scuola prima che arrivasse la pandemia.
Tuttavia, considerando anche l’andamento nazionale in matematica e in inglese, possiamo comunque apprezzare la tenuta sostanziale della scuola primaria. Le tre figure che seguono mostrano una percentuale di raggiungimento dei traguardi abbastanza elevata e, in inglese, nel confronto tra 2018 e 2022, si osserva un aumento degli alunni che conseguono il livello A1 più marcato nel listening che nel reading.
I due indicatori fondamentali dell’equità (e come intervenire per migliorarli)
Finché sentiremo parlare di equità in modo generico non credo che vedremo dei miglioramenti. Dire che la scuola dovrebbe dare pari opportunità a tutti non è sufficiente (e, come diceva Don Milani, è pure sbagliato). Occorre capire in modo più accurato e circostanziato quali siano le variabili che segnalano l’incapacità del nostro sistema scolastico di far conseguire a tutti gli alunni le competenze di cittadinanza fondamentali. Dovremmo cercare di mettere in risalto queste variabili e farcene carico, scuola per scuola, docente per docente; aggiungerei: ministro dopo ministro. Questi indicatori dovrebbero diventare come i valori della pressione sanguigna di una persona ipertesa. Qualcosa da controllare periodicamente con precisione, adattando costantemente la terapia per ottenere i valori desiderati.
Indicatore n. 1: “indice di ghettizzazione delle scuole e delle classi”
Ricordando l’alunno Pierino di Lorenzo Milani, esempio di bambino di buona famiglia, in contrapposizione con l’alunno “reietto” Gianni, figlio di operai o di contadini, potremmo spiegare questo indicatore così: “i Pierini coi Pierini, i Gianni con i Gianni”.
È un indicatore al negativo, nel senso che segnala non una qualità che si vorrebbe sempre maggiore ma una distorsione, una patologia da ridurre quanto più possibile o, quantomeno, tenere sotto controllo.
Parliamo della cosiddetta “variabilità” (più tecnicamente “varianza”) dei risultati rispetto alla scuola e alla classe. È un parametro percentuale che ci dice in che misura i risultati conseguiti da un alunno dipendano non già dalle sue capacità, o dal suo impegno, ma dalla “fortuna” di essere capitato in una classe migliore, o in una scuola migliore2. Quando questa fortuna conta molto si parla di “ghettizzazione” o “segregazione scolastica” per indicare l’esistenza di “ghetti” o, al contrario, di “isole felici”; cioè di luoghi in cui sono concentrati gli studenti con più difficoltà o con più risorse, non tanto economiche quanto culturali. Un fenomeno del genere è, in una certa misura, inevitabile perché va di pari passo con la “ghettizzazione” socio-economica dei territori. In una città ci sono quartieri abitati prevalentemente da famiglie benestanti e altri più popolari e, talvolta, degradati. Ciò nonostante, abbiamo osservato scuola migliori del loro contesto (scuole buone in quartieri popolari) e scuole peggiori del loro contesto (scuola mediocri in quartieri residenziali di alto livello economico).
Dunque la variabilità ci dice quanto è presente questo difetto di equità.
Purtroppo in Italia la variabilità tra le classi e tra le scuole raggiunge valori preoccupanti già nella scuola primaria.
Ora chiediamoci: perché un alunno dovrebbe andare meglio per il fatto di frequentare una certa scuola o una certa classe? È una domanda molto meno banale di quanto potrebbe sembrare.
A livello intuitivo, e spesso in modo solo parzialmente consapevole, il fatto che un bambino “sia spinto” dal contesto in cui si trova è qualcosa che fa parte del senso comune. I modelli concettuali a cui ci si riferisce sono quelli dell’emulazione e dell’esempio. Ognuno di noi, come figlio e anche come genitore, si è confrontato con la forza dell’ambiente, delle cosiddette buone (e delle cattive) compagnie. E in genere, andando avanti con gli anni, ci si rende conto sempre di più (spesso con una certa amarezza) dell’importanza della qualità dell’ambiente nel determinare la crescita di un ragazzo3.
È certamente meno ovvio e banale riuscire a misurare questo fenomeno. Tentare cioè di rispondere alla domanda: quanto dipende l’apprendimento di un ragazzo dalla classe, o dalla scuola in cui si trova? E come mai in certi territori questa dipendenza è maggiore?
E qui il discorso è molto diverso a seconda che si parli di scuola o di classe. Se una scuola è inserita in un ambiente degradato faticherà di più nel suo impegno educativo di una scuola collocata in un ambiente sano e curato. Non così per le classi di una stessa scuola. Perché mai dovrebbero esistere sezioni migliori o peggiori di altre?
Nella figura qui sopra sono riassunte le variabilità per scuola e per classe riferite all’apprendimento in italiano e in matematica in quinta primaria. Le colonnine incorniciate in rosso evidenziano i dati più alti: la variabilità tra scuole nell’apprendimento della matematica nelle regioni del Sud (Abruzzo, Molise, Puglia e Campania) e nel Sud e Isole (Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna). In termini molto semplificati, un alunno della Campania potrà cavarsela a scuola soprattutto se ha la fortuna di andare nella scuola giusta. Questa fortuna, il più delle volte, dipende dalle informazioni di cui dispongono i genitori e dalla possibilità di portare i propri figli nelle scuole migliori. Parliamo di una sorta di “bonus scuola” che può far aumentare, da solo, dal 25% al 40% la qualità dell’apprendimento scolastico. Ma anche la variabilità per classe è piuttosto consistente. In questo caso il “bonus classe” va dai valori poco preoccupanti delle regioni del centro nord (compresi tra il 3% e l’8%) a valori ben più rilevanti nel Mezzogiorno che superano il 20%.
Indicatore n. 2: “indice di immobilità sociale”
Il secondo indicatore che attesta la scarsa equità del sistema scolastico italiano è rappresentato dal peso del contesto di provenienza e dalla incapacità della scuola di compensarne gli effetti.
Il ragionamento è semplice: se la scuola riuscisse davvero a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (articolo 3 della Costituzione), allora i punteggi degli alunni non dovrebbero dipendere dalla condizione socio-economica familiare. A scuola dovremmo trovare studenti poveri e ricchi (in tutti i sensi) sia tra quelli più deboli che tra gli eccellenti. Purtroppo non è così.
La figura con i risultati medi in funzione del titolo di studio familiare (si sceglie il titolo di studio più alto posseduto da uno dei genitori), pur essendo espressa con un’unità di misura di non facile lettura (unità di deviazioni standard), mostra chiaramente il peso del titolo di studio nel punteggio di un alunno in ciascuna delle quattro discipline testate. Come si vede bene il vantaggio degli alunni che hanno almeno un genitore laureato si fa sentire già nella scuola primaria e, quel che è peggio, aumenta fortemente nella scuola secondaria di primo grado e secondo grado. Per quest’ultimo ordine di scuola bisogna tener conto delle diverse aspettative nelle tre tipologie di scuola (liceo, tecnico o professionale) e del fatto che gli studenti con maggiori difficoltà iniziano a lasciare la scuola già dalla prima classe.
Volendoci limitare alla scuola primaria, il dato più grave è costituito dallo svantaggio relativo degli alunni con genitori che hanno la licenza elementare o, al massimo, la licenza di scuola media sia in matematica che in italiano (colonnine incorniciate in nero). Considerando, ad esempio, la competenza nella comprensione del testo (italiano), gli alunni che hanno il genitore più istruito con la licenza elementare conseguono un punteggio che è inferiore di 28 punti rispetto alla media nazionale considerata pari a 200 (-14% che si riduce a -11% nel caso in cui almeno un genitore sia in possesso della licenza media). È decisamente tanto.
Come intervenire per migliorare questi indicatori?
Non posso che limitarmi a un elenco molto sommario di strategie, articolato secondo i livelli di competenza.
Cosa possono fare il Governo e il Ministro dell'Istruzione?
Il PNRR destina un finanziamento di 1,5 miliardi di euro alla riduzione dei divari territoriali “per quanto concerne il livello delle competenze di base (italiano, matematica e inglese) (…) e per sviluppare strategie per contrastare in modo strutturale l’abbandono scolastico”.
È un impegno ragguardevole che va nella giusta direzione. Attualmente sono stati ripartiti i primi 500 milioni di euro destinati a 3.200 scuole.
Ancora a livello nazionale è sicuramente importante rafforzare la valutazione delle scuole per sostenere i loro piani di miglioramento e favorire il confronto costruttivo tra realtà simili (anche se non vicine territorialmente).
Cosa può fare la singola scuola?
La scuola può fare moltissimo per ridurre la variabilità tra le classi, soprattutto tra le classi parallele di uno stesso plesso o di plessi vicini. Il dirigente scolastico e i docenti di staff possono curare in modo particolare la formazione delle classi e la costituzione dei team dei docenti alle quali saranno assegnate.
Per essere chiaro ed esplicito, penso che ogni dirigente scolastico dovrebbe farsi questa domanda: se mio figlio, o mia figlia, dovesse essere inserito in questa scuola, posso onestamente dire che in qualsiasi classe capiterà le cose gli andranno altrettanto bene? Troverà compagni egualmente diversi in ogni classe e docenti con qualità professionali e umane non significativamente diverse?
C’è poi da prendere in carico i divari socio-economici tra gli alunni. Questo è un impegno ambizioso e, riconosciamolo, anche molto faticoso.
A questo scopo può essere molto utile l’uso dei microdati che Invalsi restituisce ogni anno alle scuole.
Nelle scuole con cui ho lavorato negli ultimi mesi, ad esempio, è sembrato molto utile individuare nelle seconde classi della primaria tutti gli alunni collocati al di sotto di un determinato punteggio, mettiamo 160 o 150 (rispetto alla media di 200). Parliamo in genere di un numero limitato di bambini, da alcune unità a poche decine. La maggior parte delle volte di questi bambini se ne trovano 3-4 in ogni classe. Se sono di più, anche molti di più, si potrà iniziare a seguire i bambini più a rischio per poi allargare il cerchio a seconda delle risorse disponibili.
Una volta individuati questi alunni più deboli, si potrà offrire, a loro e alle loro famiglie, un sostegno mirato durante il primo quadrimestre della terza classe. È probabile che alcune famiglie non siano in grado di intervenire in modo efficace. In questi casi la scuola può organizzare attività di recupero che non richiedano alcun supporto da parte delle famiglie utilizzando le risorse di cui dispone: docenti disponibili, docenti in pensione volontari, associazioni del terzo settore, ecc. Al termine del primo quadrimestre si valuta se è necessario protrarre l’intervento per tutto l’anno scolastico o meno.
Cosa può fare il singolo insegnante?
Le iniziative di recupero-mirato della scuola, cui ho appena accennato, sono efficaci se si affiancano a iniziative analoghe assunte dal team di docenti della classe e, infine, all’azione compensativa di ogni docente. L’elemento centrale da tenere presente è il diverso supporto che gli alunni più deboli possono avere dalla famiglia.
Ricordo che in una scuola di periferia, dove ho lavorato molti anni, tra colleghi evocavamo spesso la mitica figura della “zia insegnante” che alcuni bambini nominavano, talvolta anche con un po’ di fastidio, ma che noi consideravamo una benedizione. Ebbene anche i bambini che non hanno una zia insegnante, né altri a cui chiedere aiuto in casa, dovrebbero trovare in classe un aiuto supplementare, ben misurato nella quantità e nella qualità. È certamente molto difficile e, in alcuni casi anche un po’ frustrante, perché non sempre si ottengono i risultati sperati, ma credo che sia soprattutto in questa direzione che dovrebbero essere indirizzate le poche risorse della scuola e del territorio in cui ogni scuola opera. Se poi, in un prossimo futuro, verranno destinate risorse ben più consistenti nell’ambito del PNRR, allora sarebbe importante impiegarne una parte cospicua per favorire il supporto capillare e mirato degli alunni fin da quando emergono i primi segnali di difficoltà.
Le prove Invalsi servono anche, e soprattutto, per questo.
NOTE
1. La tecnica consiste nel somministrare ogni anno un certo numero di prove segrete (dette prove àncora), che non vengono rese pubbliche, a un campione di alunni. Questo permette di confrontare l’abilità media degli alunni di ogni anno sulle stesse prove. Se, ad esempio, il punteggio medio sulle prove àncora del 2021 era 195 e quello del 2022 è 192 vuol dire che gli alunni del 2022 sono mediamente meno abili rispetto a quelli del 2021. Questa stessa differenza dovrebbe riscontrarsi anche sulle prove ufficiali che svolgono tutti gli alunni. Se non è così i punteggi sono ripesati al fine di renderli confrontabili.
2. Una classe può essere migliore di un'altra principalmente perché vi sono stati iscritti gli studenti migliori, o perché ha i docenti migliori. Analogamente una scuola può essere migliore di un’altra perché è frequentata da studenti migliori o perché vi lavorano docenti migliori o perché è diretta da un dirigente scolastico più capace. Per quanto riguarda le scuole (e non le classi) conta molto anche la qualità culturale e socio-economica del territorio nel quale si trova.
3. Sulla prevalenza dell’ambiente (scuola e territorio anzitutto), rispetto alle risorse genetiche e perfino rispetto al condizionamento familiare consiglio fortemente la lettura dell’illuminante libro di Judith Rich Harris “Non è colpa dei genitori” che ha un sottotitolo molto eloquente: La nuova teoria dell’educazione: perché i figli imparano di più dai coetanei che dalla famiglia”. Rimane impressa un botta e risposta della Harris: “Perché i figli sono molto più attenti a imparare dai coetanei che dai genitori? Semplicemente perché i loro coetanei (e non i genitori) saranno i loro fidanzati, i loro colleghi di lavoro, ecc.”