Il saluto: accoglienza e riconoscimento

Un bacio, un abbraccio, un inchino, una mano sul cuore: ci si saluta in tanti modi diversi. Una riflessione e alcuni suggerimenti per lavorare in classe sulla relazione e sulle differenze a partire dal saluto

di Francesca Tamanini10 gennaio 201710 minuti di lettura
Il saluto: accoglienza e riconoscimento | Giunti Scuola
La fatica della giornata, una preoccupazione, ma anche il pensiero delle cose da fare e tutti i nostri progetti del momento sono condizioni di pensiero che dobbiamo mettere da parte quando ci disponiamo al saluto. Il saluto ci chiede di togliere i nostri pensieri del momento per lasciare spazio all'incontro con l'altro. E fare spazio è la prima opportunità che ci offre il saluto: fare spazio dentro di noi, nella nostra "stanza della relazione" (1). Quando saluto, tralascio qualcosa che mi occupa, metto da parte un mio pensiero, riduco il mio "io" e do spazio ad un "tu".
Esteriormente come lo faccio?
Essenzialmente con tre piccole azioni: 1. guardo negli occhi 2. sorrido 3. dico una formula, a volte accompagnata da alcuni gesti corporei.
In pratica, porto l'attenzione fuori di me. E a questo punto quasi dimentico me stesso, mentre dico all'altro che l'ho riconosciuto. Infatti nel linguaggio dall'adulto non si saluta chi non si conosce o lo si fa con difficoltà. Il bambino invece ha meno filtri: saluta spesso (anche chi non riconosce) e teme meno il saluto negato o il mancato riconoscimento.
... e se non saluto?
Nel vivere sociale togliere il saluto è considerato una grave offesa. E' un gesto riprovevole, perché il saluto è un rito sacro, necessario, dovuto. Siamo tutti d’accordo sul fatto che riconoscere l'altro è un atto umano essenziale, irrinunciabile, fondamentale: Buber, teorico tedesco della filosofia dell'Io-tu, ci dice che l'individuo non esiste per se stesso, ma soltanto in relazione con l'altro.
Tuttavia può succedere che il mio io sia troppo in sé, che la mia “stanza della relazione” sia già troppo occupata, perché possa accorgermi dell'altro e allora dimentico o trascuro il saluto.
Anche in questo caso, però, posso riparare: potrei, ad esempio, tornare indietro e chiedere perdono con un gesto di saluto più enfatico, con più parole, con maggior calore. Ma il fatto rimane: sono troppo occupato da me stesso per accogliere l'altro nella mia relazione. Che cosa potrei togliere? Che cosa potrei tralasciare dentro di me, per fare posto alla relazione con l'altro?

Saluti dai mille colori

Questo uscire da se stessi è qualcosa di aperto e di estremamente variopinto: dipende da chi porge il saluto, da chi lo riceve, dall'ambiente e dal contesto.
Il saluto è come una sveglia che suona: mi scuote e mi dice: "Sveglia! L'altro è di fronte a te: devi accorgerti di lui! fagli spazio! di' qualcosa e fa' qualcosa!" ... ma cosa esattamente? …
Posso salutare con un “salve!”, che è la traduzione di "salus" (latino per "salute"): porgo un augurio a star bene. Ma nella comunità locale questo tipo di saluto è anche la forma più neutra e più anonima, in quanto non prevede un Lei o un tu, che nella nostra lingua definiscono il livello di vicinanza o di distanza con l'altro. In un certo senso un “salve” mi consente di non sbilanciarmi, ma mi impedisce di uscire da me stesso.
I cinesi salutano similmente con la formula "hai fame?", perché se hai fame, significa anche che stai bene.
Posso anche salutare con un “ciao” variamente intonato, che significa "sklavus/schiavo" "servo tuo"; in tedesco si può dire "Servus!": era la salutatio romana che il cliens doveva portare ogni mattina al suo dominus che lo proteggeva. Dunque il saluto pone anche la definizione della relazione, del “chi sono io?” e del “chi è l'altro per me?”, in una negoziazione di ruoli, che prevede un rapporto di parità o di potere, di dominanza e di sudditanza. Inoltre chi saluta per primo si fa più vicino, rischiando pure di essere respinto.
Nei diversi ambienti e contesti, il saluto si definisce in modo diverso: il saluto che dai a tuo figlio non è il saluto che rivolgi alla vicina di casa e non è il saluto che porgi all'ufficiale in divisa, quando lo incontri.
Il saluto può avere anche delle connotazioni religiose: in Tirolo si saluta con "Grüẞ Gott!" che implica nella relazione con l'altro anche la partecipazione divina e il riconoscimento di un orizzonte religioso comune o almeno di una tolleranza reciproca della religiosità dell'altro. “Salam” per l'arabo significa augurare e chiedere "salvezza, salute, pace". Anche la durata del rito, che varia a seconda delle culture, contraddistingue i saluti: in Marocco ci si dà la mano per parecchio tempo, anche se l'incontro è casuale e la conoscenza non è profonda. Per gli aborigeni Anangu dell’Uluru (Ayers Rock, Australia) la mano si stringe invece in modo delicato. Naso contro naso è lo hongi, il saluto maori. In Giappone, l’inchino è d’obbligo in ogni incontro. Una stretta di mano vigorosa e un bacio, anche se ci si vede per la prima volta, in Perú. Per gli Ewé del Togo la parola e il saluto sono sacri: parenti o estranei, ci si saluta a lungo. In India, le mani giunte simboleggiano i cinque sensi riuniti, mentre il capo reclinato è segno di umiltà. In Marocco si stringe la mano e la si può portare sul cuore in segno di affetto.
Nell'incontro di saluti fra persone delle varie culture si può notare la negoziazione della relazione attraverso quello che viene chiamato l' incidente interculturale, che capita ad esempio quando non si è d'accordo sul numero dei baci da scambiare o sul lato dal quale cominciare. Per i russi, sorridere ad un primo incontro viene considerato un segno di pazzia: essi quindi si comportano in modo estremamente serio nei saluti di un incontro pubblico.
Infine nel mondo animale il saluto avviene spesso senza le parole: con l'olfatto e movimenti di avvicinamento, che hanno la funzione di neutralizzare la naturale aggressività che si manifesta per motivi legati all’accoppiamento, a esigenze di contatto nei gruppi sociali, ecc. I gabbiani, per salutarsi, girano il capo, evitando così di mostrare la maschera nera, oppure le cornacchie e le cicogne rivolgono il becco all’indietro, per volgere altrove le potenziali armi di offesa.

Il saluto è un rito e un’impronta

Attraverso il saluto avviene il passaggio all'esterno di un sentimento interno e profondo, che è quello dell'accoglienza e dell'apertura verso l'altro. Ricordo con precisione le prime persone del paese che mi salutarono chiamandomi per nome, quando mi trasferii. La sensazione di non essere a tutti sconosciuta arrivava come un antidoto al senso di estraneità che si vive quando ancora si sente di non appartenere ad una comunità.
Il gesto del saluto è un gesto che arriva al cuore di chi lo riceve: vorrei dire che è un'impronta che si stampa sul cuore dell'altro.
Ecco perché il saluto è sacro: il saluto è un simbolo, e può portare al passato comune, ad una relazione, ad un'esperienza di conoscenza che c'è già stata: "sono felice di rivederti", "ti aspettavo da un sacco di tempo", "meno male che staremo un po' insieme". Inoltre il saluto può contenere l'augurio di un'esperienza di relazione che si potrebbe vivere insieme: può voler dire "mi sei simpatico", "ti trovo bello", "vorrei passare un po' più tempo con te", "ti porto nel cuore".
Anche "arrivederci" e "addio" sono messaggi che sono contenuti nei saluti di chi parte e nel cuore di chi resta: vogliamo dire che non saremo più presenti fisicamente l'uno all'altro, ma vogliamo fissare il nostro legame nel cuore. L'espressione "estremo saluto" è allora un condensato di realtà e di desiderio di eternità; un agglomerato di passato (i ricordi di chi resta), di presente (il momento difficile) e di futuro (la speranza); e proprio per questo gli estremi saluti sono molto intensi e anche molto dolorosi. Al momento dell'estremo saluto, apriamo il cuore, mostrando l'impronta che è rimasta in noi da parte di chi ci lascia.

Salutare è solo un primo passo

In passato essere accoglienti con l'altro, in particolare con lo straniero, ha significato per noi imparare il suo saluto, sorridere, chiedergli di raccontare le usanze del suo Paese. Questo gesto però è solo in parte accogliente, in quanto costituisce appena l'anticamera dell'accoglienza. Inoltre in alcuni casi si è visto che un gesto esagerato mette l'altro al centro dell'attenzione e può provocargli un senso di disagio. Questo può far nascere un pensiero omologante: "Tu sei di questa nazionalità e dunque sei vissuto così, hai avuto questa storia di migrazione, in Italia vivi così, parli così...".
Come per ognuno di noi, vi è per gli stranieri il diritto all'unicità e il “diritto all’opacità" (2): nel loro stare in Italia non si augurano di essere messi al centro dell'attenzione per un giorno e poi dimenticati. Né tanto meno gli stranieri in Italia si augurano essere considerati come un unico grande gruppo uniforme. I pregiudizi nascono proprio così, quando non si conoscono realmente le persone, ma si cerca su di esse un'idea generale per poterle catalogare.
Enzensberger racconta una situazione paradigmatica, che potrebbe accadere su di un treno quando le persone entrano ad ogni fermata nello scompartimento (3). Ad ogni nuovo ingresso la relazione va rinegoziata tra chi è arrivato e chi c'era già prima. Questa situazione può essere paragonata alla realtà? E se è reale, come vogliamo realizzare l'inclusione? In che misura siamo disposti a questo impegno continuo, che ci propone di liberare ogni volta la nostra "stanza della relazione" per dare spazio all'altro?
Una volta pensavo che l'inclusione e l'integrazione fossero dei processi spontanei e che ogni società dovesse spontaneamente sviluppare i propri percorsi. Oggi penso che l'inclusione va costruita, perché è un alto gesto di civiltà e presuppone un percorso culturale che va pensato ed incoraggiato anche attraverso la scuola.
Anche perché le società plurali nelle quali ci troviamo a vivere nel Terzo millennio non sono una nostra scelta, ma un dato di realtà che tutte le politiche internazionali devono affrontare. Con le rivoluzioni del 1700 sono stati definiti in Europa i diritti che i cittadini facevano valere all'interno dei confini di uno Stato. Oggi dobbiamo provare a pensare a quali diritti garantiamo ad ogni uomo che vive in qualsiasi punto della Terra. I confini nazionali, con la globalità, stanno diventando vestiti sempre più stretti. Noi dovremmo saper accogliere, nel rispetto della dignità di ciascuno, allo stesso modo in cui vorremmo essere accolti nelle nostre migrazioni ed i quelle dei nostri figli, che magari andranno all'estero per motivi di studio o di lavoro.

Un saluto diverso per ciascuno

Vorrei concludere con una domanda agli insegnanti: avete voi un saluto speciale per ciascuno dei vostri bambini? Avete mai pensato a come potrebbero sentirsi unici, se nella scuola fossimo capaci di considerare che sono uno diverso dall'altro, ciascuno visto nella propria specialità?

Un saluto, di cuore...!


(1) L'espressione “stanza della relazione” è tratta dal corso: Alessia Bonini, L'arte di educare. Centro studi Podresca 2016.
(2) Marco Aime, La convivenza è un'arte difficile. Abstract Convegno: “Vivere insieme in pari dignità, Piacenza, ottobre 2016.
(3) Enzensberger, La grande migrazione. Feltrinelli 1997.

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