Donne nella scienza, ieri e oggi

Le donne che salvano l’ambiente

Si accende quando usiamo le parole per comunicare, cio&egrave; le prendiamo dal vocabolario, dove sembrano semplici etichette, e le inseriamo in una frase per parlare agli altri, rivolgendosi a loro, e per parlare degli altri. Gli studiosi di comunicazione ce lo ricordano: il senso di un enunciato dipende dalle parole che contiene, ma solo in combinazione con l&rsquo;intenzione di chi parla e con tutte quelle informazioni che vengono dalla situazione e dai nostri quadri concettuali. Con il linguaggio quindi agiamo, e le azioni, come sappiamo bene, provocano effetti, uno dei quali &egrave; la discriminazione, di genere o razziale. Sotto le parole e le frasi ci siamo noi, i parlanti, con i nostri immaginari e le nostre emozioni: l&rsquo;unico vero fattore in gioco &egrave; chi usa la lingua, come e a quale fine. &Egrave; per questo che le parole possono essere violente e ferire, perch&eacute; tramettono significati nascosti, come il rifiuto, la segregazione, la diminuzione della persona. &Egrave; il caso, spesso, del lessico di genere, a partire dai titoli professionali, che riecheggiano una differenza di potere e di ruolo tra maschi e femmine. Cos&igrave;, ad esempio, se giudico una persona &ldquo;un ottimo maestro&rdquo; posso far pensare a un insegnante della scuola primaria come a un maestro di musica o a una persona di grande cultura, mentre &ldquo;un&rsquo;ottima maestra&rdquo; evocher&agrave; solo le capcit&agrave; dell&rsquo;insegnamento della scuola primaria, generando quindi frame e immaginari fissati culturalmente, e pi&ugrave; limitati, in corrispondenza del nome femminile. Ma lo stesso vale per &ldquo;direttore&rdquo; e &ldquo;direttrice&rdquo;, e per molte altre coppie, dove il maschile include attivit&agrave; di diverso prestigio e di alto livello, rispetto al pi&ugrave; specifico (e talvolta discriminatorio) femminile, come in &ldquo;segretaria&rdquo; rispetto a &ldquo;segretario&rdquo;, che pu&ograve; designare ruoli amministrativi di potere. I frame di genere sono radicati al di l&agrave; di quello di cui si ha coscienza, basti pensare all&rsquo;esemplificazione nel linguaggio scientifico, che &egrave; al maschile, come, ad esempio, nei libri di grammatica dove il pronome di 3&deg; persona singolare &egrave; immancabilmente &ldquo;egli&rdquo; (ad esempio, &ldquo;egli legge&rdquo;), mentre &ldquo;ella&rdquo; sembra dimenticata.

Le parole, oltre a riferirsi a cose e persone, attribuiscono loro un (pre)giudizio, una valutazione. Questa seconda operazione &egrave; meno appariscente ma pi&ugrave; importante dal punto di vista delle relazioni sociali poich&eacute;, quando si parla, si esprime molto pi&ugrave; di ci&ograve; di cui abbiamo coscienza e del semplice parlare di qualcosa. Si giudica e si colloca ci&ograve; di cui si parla in una cornice generale, ovvero in un frame cognitivo. Il frame cognitivo &egrave; il modo di vedere e comprendere le cose che deriva dai rapporti sociali, dall&rsquo;educazione e da tutti quei fattori che creano il comune sentire, la cultura nella quale siamo immersi. Cos&igrave;, quando parliamo di &ldquo;emigranti&rdquo; due universi cognitivi si aprono negli interlocutori: quello che li collega al rischio per la sicurezza e alla differenza, e quello che li collega all&rsquo;integrazione e all&rsquo;inserimento. Una nozione importante come quella di &ldquo;libert&agrave;&rdquo; richiama frame diversi, a seconda delle culture e dei popoli. Anche nel nostro mondo occidentale, la libert&agrave; neoliberista &egrave; diversa da quella di ispirazione sociale, la libert&agrave; intesa come rispetto dei diritti di ciascuno &egrave; diversa dalla libert&agrave; individualistica.

In realt&agrave; capirci, usando il linguaggio, non &egrave; un meccanismo facilmente spiegabile: gli interlocutori ricostruiscono una visione delle cose utilizzando, certo, le parole proferite o ascoltate. Ma queste sono solo un indizio per un telaio pi&ugrave; ampio, che le mette in rapporto con quello che si conosce e con quello che si prova. Walter Lippmann (2004[1922]): 19) ricorda che &lsquo;ci&ograve; che l&rsquo;individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa, ma su immagini che egli si forma o che gli vengono date&rsquo;. In questo senso, l&rsquo;individuo trae le proprie immagini dal mondo nel quale &egrave; avvolto e, in particolare, dai mezzi di comunicazione. Parlare &egrave; creare mondi, richiamare significati collettivi, cio&egrave; condivisi: le parole li evocano e li portano con s&eacute;.

...perché la lingua non è mai "neutrale"

Come fanno le parole a discriminare e offendere?

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Quando si accende questa capacità di evocare modi di pensare e sentimenti?

Se consideriamo i termini che nella nostra lingua designano l&rsquo;essere di genere femminile, vediamo che derivano dal latino mulier &ldquo;donna&rdquo;, femina &ldquo;femmina, donna&rdquo;, soror &ldquo;sorella&rdquo;: queste parole rispecchiano una societ&agrave; e le sue regole, perse nella notte dei tempi. Mulier &egrave;, secondo un&rsquo;etimologia autorevole, &ldquo;colei che macina (il grano)&rdquo;, femina &ldquo;colei che allatta&rdquo; e soror &ldquo;la donna del proprio clan&rdquo;. Un mondo patriarcale, che discriminava i ruoli e che risalirebbe agli albori della storia umana. Certo, ormai i termini per il genere femminile non evocano pi&ugrave; ruoli di mondi lontani, ma conservano un importo semantico che pu&ograve; essere ugualmente discriminatorio. La lingua, infatti, non &egrave; &ldquo;neutrale&rdquo;, e in particolare non lo &egrave; la costruzione simbolica che essa attiva: le forme usate per designare donne hanno una componente dispregiativa non tanto per l&rsquo;uso di questo o quel suffisso, ma per il significato al femminile delle voci come avvocat-o/-a/-essa, in quanto risultato della discriminazione linguistica che trasferisce nel lessico e nella morfologia il discredito rivolto alle donne che intraprendono carriere non ritenute idonee al loro sesso, come abbiamo visto sopra. Sono passati gi&agrave; trent&rsquo;anni da quando Alma Sabatini richiamava l&rsquo;attenzione sulla necessit&agrave; di promuovere un uso dell&rsquo;italiano attento al rispetto delle differenze di genere ma, nella pratica, resta diffusa la tendenza a prediligere il titolo maschile a quello femminile. Tra l&rsquo;altro, sono spesso proprio le donne ad accordare tale preferenza, nella convinzione che il titolo si riferisca al ruolo ricoperto e non alla persona che lo ricopre. La sensazione &egrave; che tale tendenza sia l&rsquo;espressione della difficolt&agrave; ad accogliere l&rsquo;idea che certe funzioni possano essere svolte dalle donne e che, nel caso, queste necessitino almeno di un titolo al maschile per vedersi riconosciuto il ruolo.

Quindi, nessuna parola usata &egrave; innocente o neutra, ma ogni parola, appena la pronunciamo si trascina dietro le cornici cognitive nelle quali &egrave; ed &egrave; stata usata, cornici cognitive che organizzano le nostre conoscenze e le nostre emozioni. Nemmeno le parole per ferire, quelle che De Mauro (2016) ricorda avere connotazione negativa, di per s&eacute; feriscono, fino a quando qualcuno non le attribuisce a un interlocutore. Questo vale per le parole che evocano stereotipi (come zul&ugrave;, zingaro), quelle in genere a sfondo sessuale che richiamano pregiudizi e modelli culturali socialmente condannati, ma anche quelle che di per s&eacute; sono neutre, come signora, ma che un ghigno o un&rsquo;intonazione possono trasformare in offesa. La questione del linguaggio di genere include molti ambiti e aspetti, in parte anche fortemente ideologici. Pensiamo, ad esempio, al tema sollevato da alcune studiose riguardo al genere grammaticale come riflesso di disuguaglianze, come in &ldquo;Cari colleghi&hellip;&rdquo; riferito a un insieme di persone di sesso diverso, di contro a &ldquo;Care colleghe&hellip;&rdquo;, che invece includerebbe soltanto donne e sarebbe quindi pi&ugrave; specifico e, di conseguenza, discriminante rispetto al maschile generico. Per questo motivo viene suggerita la cancellazione, mediante un asterisco o altri espedienti grafici, di &ndash;i del plurale in riferimento a un insieme non specificato per genere(?), per sesso(?), di persone. Una sorta di drammatizzazione solo grafica, che non vuole accettare il carattere di semplice plurale che ha la desinenza &ndash;i in italiano.

Le parole non sono mai neutre...

De Mauro, Tullio. 2016. &lsquo;Le parole per ferire&rsquo;, Internazionale 27.09.2016: 1-6.

Lippmann, Walter. 2004[1922]. L&rsquo;opinione pubblica, Donzelli, Roma.

Sabatini, Alma. 1987. &lsquo;Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana&rsquo;. In A. Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma.

Le parole che feriscono