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"Sei straniero?" "No, della terza B"

Che cosa succede quando i bambini scoprono all’improvviso di non fare parte del loro stesso mondo? E quando, più grandi, sperimentano il fatto di essere considerati stranieri sia qui che là, di essere ai margini di due Paesi? Conviene che stiano in questa “terra di nessuno”?   Di Graziella Favaro.

di Redazione GiuntiScuola13 ottobre 20176 minuti di lettura
"Sei straniero?" "No, della terza B" | Giunti Scuola

Svelamenti all’improvviso

-Tu sei straniero?
-No, sono della 3a B.
È la conversazione colta al volo tra una giornalista e un bambino peruviano in una scuola milanese abitata dai bambini del mondo. Come i suoi compagni che hanno radici famigliari in altri paesi, anche Carlos si sente parte di: della classe (della sua 3a B), del quartiere, della squadra, del gruppo di amici che incontra all’oratorio. Cresce fin dalla nascita all’interno di un contesto italiano, mescolato ai compagni, immerso nella sola realtà che conosce e vive mettendoci le sue piccole impronte. In questi giorni di discussioni accese sul tema della cittadinanza, Carlos ha scoperto all’improvviso di essere diverso, ha sentito che le parole intorno a lui si sono fatte più spigolose e fredde, a volte perfino contundenti. Ha vissuto un classico esempio di “evento-confine” ( boundary events , nella definizione di Twine). Si tratta dello svelamento repentino di una condizione di alterità che viene sollecitato e prodotto da uno sguardo esterno, da un’etichetta o un’offesa, da una domanda o una parola compassionevole. Come tanti bambini e ragazzi che sono giuridicamente ancora stranieri, ma che si percepiscono da sempre come italiani, il bambino peruviano ha scoperto di non fare pienamente parte del suo mondo. E si affollano le domande nella sua testa: che cosa sono? Se quando vado nel paese della mamma mi chiamano “l’italiano” e quando sono in Italia mi considerano “uno straniero”, chi sono davvero? Quale terra devo considerare la mia casa?

“È la lingua che ci fa uguali”

Francesca Ferri per GSM Manifesta, Parliamoci

Mi capita sovente di chiedere agli insegnanti quanti alunni stranieri ci sono nella loro classe e rispondono spesso senza tener conto del dato giuridico, ma considerando come tratti salienti dell’essere italiani il fatto di parlare la nostra lingua e di essere nati qui. E anch’essi quindi scoprono che i loro alunni italofoni, che padroneggiano la lingua con accenti e coloriture locali e che sono “qui da una vita”, non hanno (ancora) la cittadinanza.
“È la lingua che ci fa uguali” , così scriveva Don Milani. E dovrebbe essere proprio così. La lingua unisce, crea legami, ordina e rappresenta il mondo, lo definisce e lo racconta. La lingua informa il pensiero e lo struttura. Per i figli degli immigrati, l’italiano non è lingua straniera, ma è una seconda lingua madre, una lingua adottiva che germoglia e si rafforza sempre più, accanto al codice materno. È la lingua del gioco e delle relazioni amicali, la lingua del primo amore e delle scoperte, degli apprendimenti e della letteratura.
Sta avvenendo per i cittadini stranieri quello che successe un tempo agli italiani. La lingua è stata koinè che ha unito il Paese e creato l’unità d’Italia. Come scrive Gian Luigi Beccaria ( Mia lingua italiana ): “ Per prima è venuta la lingua . Non è stata una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il desiderio e il progetto di una nazione”. E ancora:” L’italiano è la lingua che ci ha insegnato a essere italiani, e non soltanto fiorentini o lombardi, piemontesi o siciliani. Le diversità sarebbero rimaste tali se non ci fossimo confrontati e uniti sotto il sego di una lingua comune”. La sfida dell’italiano oggi è dunque quella di diventare sempre di più parola e progetto per i nuovi cittadini; legame e vincolo tra loro e i “vecchi” cittadini.

Quanti nuovi italiani?

Nei dibattiti accesi di questi giorni, il tema della cittadinanza ai minori stranieri - che, va ricordato, è il solo oggetto della legge in discussione - viene confuso e sovrapposto con gli sbarchi e gli arrivi dei richiedenti asilo, tendendo a dare un’immagine di emergenza e di invasione. Ma è proprio così? In realtà, i dati nazionali smentiscono questa rappresentazione. Ne consideriamo due tra quelli che hanno a che fare con la presenza dei minori. Il primo riguarda gli alunni non italiani presenti nelle scuole italiane: il loro incremento da un anno all’altro è ormai quasi pari allo zero (+0,1%) ed è in continuo calo ormai da qualche anno. Il grafico qui sotto lo mostra con chiarezza (Miur, Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano. Anno scol. 2015/16). Pochi ricongiungimenti famigliari e nascite in calo sono all’origine del dato in assestamento che ha registrato un aumento nel 2015/16 di soli 653 alunni stranieri, rispetto all’anno precedente.

E veniamo alle nascite. Negli ultimi quattro anni (dal 2012 al 2016), il numero dei nuovi nati che hanno entrambi i genitori stranieri è diminuito in maniera costante: nel 2012 sono nati 79.894 piccoli non italiani, nel 2016 le nascite sono state 69.379 (Istat 2017). Tra il 2012 e il 2016 ci sono stati quindi 10.515 bimbi stranieri in meno, pari a -13.1%.

Né di qui né d’altrove

I minori che sono nati in Italia, sulla base della legge attuale (n. 91 del 1992) che regola la cittadinanza, sono destinati per la gran parte a diventare italiani alla maggiore età. A 18 anni infatti, se non hanno interrotto la residenza nel nostro Paese, possono presentare la domanda di acquisizione della cittadinanza e diventano italiani dopo qualche tempo. Vivono dunque fino a 19/20 anni un tempo lungo di attesa e di sospensione. In questa fase, come molti di loro raccontano, le ragazze e i ragazzi in attesa di cittadinanza non sono italiani ma non sono neppure a pieno titolo cittadini del paese di origine dei genitori perché là sono considerati “italiani”. Per un adolescente, questo tempo di sospensione e incertezza è una condizione ansiogena e complessa da gestire. Non sono e non si sentono più appartenenti al paese dei genitori, ma non sono ancora appartenenti a quello che li ha visti crescere: collocati in una sorta di terra di nessuno e di anomia che non è salutare né per le ragazze e i ragazzi coinvolti, né per il Paese che li accoglie. Essere sulla soglia rende più nebuloso il futuro, incerto il luogo nel quale collocare i sogni e i progetti, indefinito lo spazio al quale dare il nome di casa e di patria. Chiediamoci allora: conviene lasciare così a lungo delle ragazze e dei ragazzi ai margini della comunità?

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