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Professionalità e sobrietà

Meno custodia, maggior senso dell’istituzione: così si comincia l’educazione alla cittadinanza. Dal numero 10 di "Scuola dell'infanzia", dedicato al tema dei diritti.

di Redazione GiuntiScuola06 giugno 20138 minuti di lettura
Professionalità e sobrietà | Giunti Scuola

Scoperta dell’altro da sé, esercizio del dialogo, necessità delle regole e della condivisione, comportamento eticamente orientato. Sono questi i principi che le Indicazioni per il curricolo 2012 sottolineano per quanto riguarda l’educazione alla cittadinanza nella scuola dell’infanzia.

Può essere interessante provare a declinare questi principi, sicuramente condivisibili da tutti ma anche estremamente generici, nella quotidianità educativa e scolastica . A partire da un dato: i bambini e le bambine della scuola dell’infanzia, come del resto ogni bambino a partire dalla sua nascita, non sono “i cittadini del domani” come troppo spesso si sente ancora dire: essi/e sono oggi cittadine e cittadini del nostro Paese e del mondo, titolari di diritti specifici indicati in quello straordinario documento che è la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia .

Una democrazia si deve misurare a partire dall’implementazione o meno del diritto di cittadinanza per i bambini e le bambine, come Francesco Tonucci ripete da anni se non da decenni.

L’apertura all’altro

La scoperta dell’altro da sé è senza dubbio centrale in ogni processo di apprendimento e in questo la scuola dell’infanzia può e deve fare un’opera di controcultura; uno straordinario romanzo di fantascienza, Il regno diviso di Rupert Thompson, immagina che il Regno Unito venga suddiviso in quattro sottoregni nei quali sono costretti ad abitare i cittadini suddivisi per “umori” (flemmatici, melanconici, collerici, sanguigni); ci sembra che questa distopia non sia lontana dalla realtà, quando si vedono genitori che affermano che il proprio figlio deve giocare con i bambini uguali a lui “altrimenti si trova male”.

La scuola è la prima comunità della nostra vita, e la scuola dell’infanzia è la prima palestra nella quale la differenza è imposta ma è intesa come risorsa e non come ostacolo . L’aggressione che il diritto allo studio ha subito negli ultimi anni da parte di coloro che vorrebbero espellere gli stranieri dalle scuole (e quando non vi riescono ricorrono al vile mezzo di negare loro i servizi accessori, come la mensa) rende conto dell’importanza dell’esperienza scolastica come reale incontro con il diverso, con l’altro, con il differente.

Nella quotidianità scolastica questo significa soprattutto permettere che l’altro scombussoli le mie certezze e le mie abitudini. Disegnare la linea del tempo mettendo il cartellino con la scritta “oggi” a destra di quello con la scritta “ieri” ha senso solo per le culture che scrivono da sinistra a destra ; il bambino o la bambina arabofoni letteralmente non capiranno questa operazione. La straordinaria ricchezza di questo conflitto di interpretazioni non può sfuggire a chi insegna; non esiste un modo “giusto” di scrivere (come del resto di fare qualsiasi altra cosa: dormire, leggere, mangiare, pregare) ed è proprio la quotidianità educativa a mostrarcelo.

L’esercizio del dialogo dovrebbe essere un’abitudine scontata in un contesto democratico e civico; sappiamo bene che non è così in un contesto sociale nel quale vale il detto (malamente da noi tradotto dal più icastico milanese) “chi grida di più porta a casa la vacca”; anche qui la scuola è una specie di ultima frontiera, ma occorre che tutti coloro che vi lavorano capiscano che per il dialogo occorre tempo, una montagna di tempo.

Occorre tempo per apprestare il setting per il dialogo (il silenzio, la comodità dei partecipanti, il necessario entusiasmo limato dall’altrettanto necessaria calma), occorre tempo per invitare i bambini e le bambine a dialogare, senza obbligarli e senza forzarli (non c’è niente di più violento e antidemocratico di un silenzio violato), occorre tempo per discutere sul dialogo, ovvero per metacomunicare; senza parlare del tempo che occorre per il dialogo tra colleghi, con i dirigenti, con le famiglie. In questo la scuola dell’infanzia ha dalla sua parte il vantaggio del non dover rincorrere doveri precoci di alfabetizzazione a qualsiasi tipo di scrittura (anche elettronica!) e se lo fa, magari cedendo alle pressioni congiunte di qualche scuola primaria e di qualche genitore, viene meno al suo mandato specifico.

E per fortuna, il dialogo non è solamente linguistico ma è anche e soprattutto corporeo , fatto di gesti, di strette di mano e abbracci, di sorrisi e di lacrime: dunque esso non può essere precocemente mediato dai new media sotto la cui dittatura capita di incontrare bambini che sanno scrivere una mail ma non sanno abbracciare un compagno che piange per consolarlo, fino alla follia di una Lim impiantata nella sala per la nanna dei bambini e delle bambine di tre anni!

Che cosa fare nella scuola dell’infanzia

La necessità delle regole e della condivisione rischia di diventare una questione assai spinosa per una istituzione come la scuola dell’infanzia, spesso percepita come una specie di anello debole nel sistema scolastico italiano (soprattutto, crediamo, per il suo essere al di fuori dell’obbligo ma anche per un radicato pregiudizio che pensa ai servizi per l’infanzia come a qualcosa di meramente custodialistico); ma è proprio qui che a nostro parere si gioca la partita decisiva per l’educazione alla cittadinanza: una scuola dell’infanzia sempre più istituzione (e sarebbe ora di togliere la patina di negatività a proposito di questa parola) e sempre meno servizio deve portare all’esibizione della massima professionalità da parte dei/delle docenti: inviti a cena da parte dei genitori, regali di Natale personali alle maestre, mamme alle quali si dà del tu, fino alle scatole di scarpe portate in classe “per farle provare alla maestra” da parte del titolare del negozio il cui figlio frequenta la sezione; tutto questo non fa che indebolire l’aspetto istituzionale di una scuola già in sofferenza.

Linus si mette a piangere quando gli spiegano che la sua maestra è pagata per lavorare, perché pensa: “Allora non mi vuol bene”; ma Linus è un bambino, per di più di carta, che non riesce a capire che è proprio l’aspetto professionale (e lo stipendio fa parte integrante della professione ed è un aspetto del tutto centrale) a rendere l’amore della maestra qualcosa di differente dall’amore della mamma, e a fare della relazione educativa a scuola la vera palestra di tutte le relazioni e i rapporti sociali che, per il fatto di essere mediati e definiti da una istituzione, non perdono certo il loro calore e la loro passione, ma temperano entrambe a partire dal concetto di ruolo.

Per una scuola sobria

Che dire infine del comportamento eticamente orientato in una società che ha fatto dello spreco una specie di automatismo? Crediamo che una scuola magra, una scuola che sappia esistere e resistere con pochi mezzi (e per chi come noi ha visto le scuole del centro del Senegal è difficile accettare che una scuola del centro di Milano si lamenti per la povertà dei propri mezzi educativi), una scuola che sappia riciclare e faccia proprio l’obiettivo e l’imperativo della sobrietà, accompagni i bambini e le bambine nel primo passo verso una società giusta per e con tutti e tutte .

Qualche panettone in meno, qualche materiale riciclato in più, qualche richiesta in meno alle famiglie (questo vale per tutti gli ordini di scuola: il primo giorno alla scuola primaria è spesso caratterizzato da valanghe di materiali portati a scuola da parte dei bambini) e un po’ di fantasia in più per vivere non nella povertà, che è una sciagura, ma nella sobrietà, che a differenza della prima può essere scelta e praticata con gioia . Una scuola sobria, una scuola professionale, una scuola che rifiuti l’idea che senza un pc o un video oggi non si vive; una scuola dove ci si tocca, ci si abbraccia, si scava nella terra e si raccolgono le foglie d’autunno; una scuola che ha tutto il tempo del mondo per insegnare e imparare, anche se questo significa prendere a calci un po’ di burocrazia.

Una scuola del genere non educa alla cittadinanza, ma è già esercizio attivo di cittadinanza, qui e ora, per i piccoli cittadini e le piccole cittadine di oggi. Perché la cittadinanza è un’esperienza, non un oggetto di educazione : cittadini si è se fin dalla nascita si viene riconosciuti come portatori/trici di diritti e se si vive in ambienti nei quali i diritti diventano azione, gioco, abbraccio, silenzio, gioia, scuola.


Scuola dell'infanzia

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