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È come la morte di una lingua

La chiusura di una libreria o di un giornale è come la morte di una lingua. Un articolo da "Il Manifesto".

di Arturo Ghinelli16 aprile 20123 minuti di lettura

Quando muore una lingua, quando l’ultimo dei parlanti di una lingua muore, ogni volta è una sconfitta . Si spegne qualcosa di più di un semplice modo di dire le cose. Si spegne una civiltà intera, in cui quelle stesse cose succedono.

Raffaello Baldini, grande poeta romagnolo che scriveva in dialetto, diceva che ci sono cose che succedono solo dentro la lingua che le pronuncia. Scomparsa la parola, scomparsa la cosa. Difendere fino all’ultimo parlante è la più civile e irrinunciabile delle battaglie. Ogni anno nel mondo muoiono venticinque lingue, ma non tutti lo sanno. Di lingue vive ce ne sono più o meno cinquemila, oggi. Claude Hagège sostiene che nel giro di cento anni la metà di queste cinquemila lingue potrebbero essere morte. Ma forse saranno ancora di meno perché il ritmo della scomparsa potrebbe accelerare. Stiamo parlando di catastrofi.

Il rischio di chiusura del "Manifesto" e la notizia, che mi è arrivata, della chiusura di una libreria che mi era molto cara a Torino , e di molte librerie indipendenti in Italia, nonché della storica libreria Guida Merliani a Napoli, mi hanno fatto venire in mente la morte delle lingue . Sono lingue a rischio di morte . Sono andato a rileggermi Hagège: «È un dovere impedire alle culture umane di sprofondare nell’oblio. La lingua è una delle manifestazioni più alte e al tempo stesso più banalmente quotidiane della cultura. La lingua è nient’altro che ciò che gli uomini hanno di più umano. Difenderla significa preservare la nostra specie».

Il bollettino di guerra è questo. Librerie indipendenti che chiudono semplicemente abbassando le serrande per l’ultima volta, senza che nessuno ne dia segnalazione, senza che questo, soprattutto, faccia notizia. Testate che muoiono oppure rischiano la sopravvivenza quotidianamente, strangolate giorno dopo giorno da un sistema che le rigetta. E tutto senza che questo costituisca un’emergenza, un allarme ambientale, una catastrofe culturale , appunto, allo stesso modo almeno in cui lo è il rigore e la neve di un inverno un po’ meno diplomatico del solito.

Mentre invece trionfano testate giornalistiche più allineate – e finanziate – e catene librarie più massificate, in cui non trovano spazio i piccoli editori e i piccoli libri . Trionfa una lingua unica, dominante, prevaricatrice, semplificata. Mi è venuto da pensare che quando la Grecia allargò la sovranità ad alcune zone macedoni, tra i provvedimenti che prese ce ne furono alcuni, particolarmente aggressivi, di carattere linguistico. L’obiettivo, evidente e del tutto dichiarato, era l’ellenizzazione della popolazione slava. Tra i metodi per ottenere questa uniformità linguista c’era il divieto di parlare in pubblico qualsiasi lingua che non fosse il greco, l’unica lingua consentita, autorizzata, la lingua del potere. Le punizioni, se si infrangeva questo divieto, in pubblico, nelle piazze, nelle scuole potevano essere diverse, dalle sanzioni pecuniarie alla prigione alle punizioni corporali.

Si potrebbero fare altri esempi, in epoche storiche diverse, in contesti politici diversi. È il potere, economico, politico, che sempre mette in bocca le parole, e vuole che si parli solo la sua lingua. La lingua unica, quella che non contempla che in pubblico o nelle scuole si parli la lingua parlata in alcuni giornali o nei libri venduti in certe librerie. « Difendere le nostre lingue e la loro diversità, soprattutto contro il dominio di una sola – scrive Hagège – significa qualcosa di più che difendere la nostra cultura. Significa difendere la nostra vita ».

Andrea Bajani, in “Il manifesto” del 11 febbraio 2011

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