Dare parole alle emozioni

Chi non ha parole per dire, usa i gesti e il corpo per esprimersi. Dare parole alle emozioni significa sviluppare consapevolezza di sé e attenzione agli altri. Significa tenere insieme la “mente che pensa e la mente che sente”

di Graziella Favaro22 aprile 20167 minuti di lettura
Dare parole alle emozioni | Giunti Scuola
 

Come un riccio, come un vulcano

Yamil, arrivato in classe da poco, ogni tanto esplode in gesti di rabbia e di sfida. Guarda i suoi compagni con curiosità e timore; si capisce che vorrebbe far parte del gruppo ma non ha ancora parole comuni e abitudini condivise. Sef invece se ne sta in disparte, chiuso come un riccio; ha lo sguardo spento, triste e sorride raramente. Soheila parla sottovoce e con fatica, fa di tutto per essere “invisibile” e trasparente ; anche all’intervallo sta ferma al suo posto con la testa china sui libri, come isolata dal mondo.

Nelle piccole storie dei bambini e dei ragazzi che abbiamo raccolto e che vi abbiamo raccontato di recente si colgono disorientamento, stupore, senso di solitudine, paura dell’abbandono, rabbia, isolamento. Le emozioni e i vissuti dei bambini e dei ragazzi da poco inseriti nella classi si manifestano nei gesti, attraversi gli sguardi, nelle posture; raramente essi possono esprimerli dando voce al marasma emotivo che li attraversa.

Le parole che apprendono nella loro prima fase di inserimento non hanno quasi mai a che fare con i vissuti e le emozioni; sono parole referenziali e “piene”, di uso immediato e ricorrente, che denominano oggetti, azioni, situazioni concrete e visibili. L’afasia delle emozioni e dei vissuti porta allora i bambini e i ragazzi migranti (e non solo loro) a parlare con il corpo . Essi tendono ad assumere due diversi atteggiamenti o strategie di risposta alla nuova situazione emotiva: chiudersi in se stess i , diventare invisibili e ripiegarsi verso l’intero, accentuando e protraendo la fase di silenzio; oppure indirizzare messaggi “gridati” verso l’esterno, attraverso i gesti, gli atti a volte provocatori e aggressivi.

La mente che pensa, la mente che sente

Dare parole alle emozioni di base (la felicità, la tristezza, la sorpresa, la paura, la rabbia, il disgusto) e in seguito imparare a riconoscere e a nominare le sfumature emotive più articolate e complesse rappresenta per tutti i bambini - migranti o sedentari - un cammino cruciale che va accompagnato e seguito con cura nel tempo. “L’autoconsapevolezza", scrive Goleman, "cioè la capacità di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso di presenta, è la chiave di volta dell’intelligenza emotiva”. Ascoltarsi e dire agli altri come si sta e come ci si sente, mettere al centro della relazione fra sé e gli altri la parola prima o invece del gesto allena a guardarsi dentro, a rintracciare le proprie emozioni e a riconoscerle negli altri.

In questo tempo, segnato spesso a scuola e fuori della scuola, da conflitti e tensioni che rischiano di esacerbarsi, da distanze che si stanno allargando, mettere la parola accanto alle emozioni, e prima dei gesti, vuol dire allenare alla consapevolezza e all’ascolto degli altri. Insegnare a tenere insieme la mente che pensa e la mente che sente, come scrive Goleman: “Abbiamo due menti , una che pensa e l’altra che sente. Queste due modalità della conoscenza così fondamentalmente diverse, interagiscono per costruire la nostra vita mentale”. La consapevolezza emotiva rappresenta dunque il primo gradino per poter poi sviluppare il controllo di sé e la responsabilità dei gesti, vedere la motivazione e le ragioni degli altri, educarsi all’empatia per stabilire contatti e legami e poter stare bene insieme.

Un lessico anche emotivo

Anche in una fase di apprendimento linguistico iniziale, la lingua delle emozioni deve dunque trovare il suo posto e permettere a coloro che sono giunti da poco, alle prese con vicissitudini e cambiamenti profondi e improvvisi, di potersi dire e raccontare. Almeno un po’, seppure in modo semplice, ma non solo a gesti.
All’inizio saranno poche le parole da condividere, ma via via le sfumature dei vissuti troveranno un lessico emotivo più adeguato, ricco di metafore e immagini inediti, anche grazie allo scambio e al racconto degli altri. E i bambini capiranno che le parole non indicano solo cose, ma anche sentimenti, inquietudini, allegrie, timori o attese.

In classe o nei momenti di laboratorio o di lavoro in gruppi , una modalità semplice che può diventare attività di routine da proporre a tutti è quella del “calendario emotivo”. Ogni tanto si chiede di disegnare su un post-it l’immagine che rappresenta lo stato d’animo e le emozioni di quel giorno e poi di raccontare agli altri perché ci si sente felici o tristi. E, in seguito, anche: arrabbiati, nervosi, preoccupati, sollevati, fiduciosi, tranquilli, sorpresi, speranzosi…
Un’altra modalità può essere la scrittura del proprio “autoritratto emotivo”, affidando alla poesia il compito di dire come si è e alle metafore quello di dare forma e colore alle emozioni e alle caratteristiche individuali.
Ecco due esempi di autoritratti, scritti da alunni di bambini giunti in Italia da non molto tempo, che frequentano scuole multiculturali delle periferie milanesi e raccolti da Chandra Livia Candiani nel suo bellissimo libro Ma dove sono le parole?

Io sono Adela

Io ho un motore
per correre
io
ho un suono.
Io
quando mi arrabbio
dentro di me c’è un motorino
che fa un incidente
e la macchina che scoppia.
Esce acqua e vento
e fa un sussulto.
Mi chiamo Adela
e vengo dalla Romania

Adela, dieci anni, Romania

Il nove luglio

Il nove luglio è nato il rumore
che faceva molta confusione
con movimento e paura.
L’incertezza eccola qua
sono io.

Luka, dieci anni, albanese

Emozioni e culture: la vergogna e la rabbia

Ma le emozioni si manifestano per tutti nello stesso modo oppure hanno coloriture e differenze culturali? Come vengono vissute e rappresentate alcune emozioni? Quale peso sociale e individuale hanno alcuni stati d’animo in un contesto o in un altro? Una ricerca azione condotta da ricercatori dell’università di Milano-Bicocca in alcune classi della scuola “Maffucci” di Milano ha cercato di indagare la rappresentazione delle emozioni in culture diverse ( Costruire la mente multiculturale , L. Anolli, V. Zurloni, L. Confalonieri, O. Realdon, Università di Milano-Bicocca).

Per raccogliere punti di vista diversi, i ricercatori hanno raccontato a un gruppo di ragazzi italiani e cinesi degli episodi che potevano rimandare a diverse emozion i. I ragazzi sono stati invitati a dire come si sarebbero sentiti in quelle situazioni e a rappresentare poi graficamente i loro stati d’animo. La vergogna, ad esempio, è un vissuto molto pesante e doloroso per i ragazzi cinesi perché separa dagli altri, mette a nudo, isola dal gruppo. E quindi, chi prova vergogna viene rappresentato nei loro disegni disperato e in lacrime. Per i ragazzi italiani, la vergogna non è un vissuto altrettanto forte, oggetto di un giudizio sociale negativo. Chi prova vergogna quindi viene rappresentato con le guance arrossate e l’espressione della bocca un po’ intristita. Al contrario della vergogna, l’espressione della collera risulta più contenuta e controllata nei disegni dei ragazzi cinesi, i quali tratteggiano indizi espressivi limitati allo sguardo e alla bocca , mentre i ragazzi italiani tendono a dare molta più enfasi facciale alla rabbia.

Per approfondire

  • Quaderno di viaggio – Progetto PASS Pordenone. Un percorso per parole e immagini per raccontare le emozioni del viaggio e delle migrazione.

 

 
 
 

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