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La scuola nella rete: basta ingenuità

La rete non necessariamente ci rende più liberi. In che modo il web cambia la scuola, i processi di apprendimento e i contenuti? Che cosa possono fare gli insegnanti? La parola a Evgenij Morozov. Intervista di Vichi De Marchi.

di Redazione GiuntiScuola23 settembre 20169 minuti di lettura
La scuola nella rete: basta ingenuità | Giunti Scuola

Evgenij Morozov è uno dei massimi studiosi della rete. Sociologo bielorusso, esperto di media, è anche un osservatore fortemente critico dell’universo del web. Autore di numerosi libri tra cui Internet non salverà il mondo e L’ingenuità della rete , Morozov mette in guardia dagli eccessi di cyber-ottimismo . La rete non necessariamente sostiene la democrazia, afferma. Può, anzi, essere usata dai regimi più autoritari per aumentare la spinta repressiva. E anche nel settore dell’apprendimento, il web e le mille applicazioni esistenti offrono, oltre a molti vantaggi, anche non pochi rischi. Il senso critico – sottolinea – non va mai abbandonato.

Non necessariamente rete e democrazie vanno di pari passo e non è cosi automatico che la rete ci renda più liberi. Questo è uno dei punti di forza dei molti articoli e libri che lei ha scritto negli ultimi anni. Ma cosa succede nella scuola? Come cambia il processo di apprendimento grazie o a causa del web?

Non esiste “la rete” come prodotto astratto, ciò che usiamo ogni giorno sono prodotti commerciali, di grandi multinazionali come Google o Facebook. Sarebbe facile costruire delle piattaforme che siano grandi raccoglitrici di dati ma che nello stesso tempo proteggano davvero la privacy. Non viene fatto perché questi servizi sono pagati attraverso la pubblicità. Servirebbero invece degli investimenti pubblici per creare delle piattaforme rispettose degli utenti, e in questo caso specifico, per esempio, della privacy degli studenti. In Usa ma anche in Europa il settore dell’apprendimento è diventato un grande generatore di profitti. Le aziende tecnologiche hanno interesse ad investire per creare servizi che possano essere replicati, cioè venduti, ovunque. Pensiamo a servizi come Uber . Una volta creato lo si riproduce ovunque, dall’Africa all’India all’Europa. Le grandi società devono cercare modelli replicabili.

Come tutto ciò si può riflettere nella scuola?

Il modo della replicabilità ovviamente si può applicare anche alla scuola. Ma con esisti spesso negativi. Ad esempio, nell’istruzione online, il modello dei test per gli esami finirebbe per essere lo stesso ovunque nel mondo. E questo varrebbe anche per i test intermedi. Oppure pensiamo a fenomeni come Amazon. Questo colosso ha fatto un accordo con la città di New York per vendere eReader per le scuole. Studenti e insegnanti li usano per accedere ai libri di testo. Da una parte c’è una corrente “ideologica” abbastanza forte che dice che noi dobbiamo personalizzare il nostro processo educativo, di apprendimento. Tutto ciò che studiamo dovrebbe essere ritagliato su di noi in modo molto preciso, adatto ai nostri bisogni e alle nostre mete. Ma per fare questo serve che le piattaforme raccolgano un’enorme quantità di dati su di noi. Tempo fa ho scritto un libro tradotto in Italia con il titolo Internet non salverà il mondo . Il titolo riprende, negandola, l’idea, molto popolare nella Silicon Valley, che Internet salverà il mondo. In realtà l’obiettivo di queste aziende è entrare nei mercati di Asia o Africa o America Latina sostituendosi a istituzioni scolastiche spesso assenti o molto carenti. La loro speranza è che i governi facciano accordi con i grandi colossi per acquistare corsi scolastici online senza investire un sacco di soldi nella creazione e gestione di scuole e università. Succede ad esempio in Liberia dove, ho letto di recente, il sistema scolastico è stato praticamente privatizzato con una fortissima componente di digitalizzazione e un’azienda privata gestisce quasi in toto il sistema scolastico del paese. È chiaro che in Europa la situazione è molto diversa. In Italia esiste un settore pubblico che fa da argine. Ma quello che mi preme stigmatizzare è la retorica per cui ciò che è nuovo è buono e rappresenta il futuro. La formula è troppo semplicistica. L’unico vantaggio che hanno le aziende della Silicon Valley è di essere riuscite ad appropriarsi dell’innovazione. Aziende come Google e Facebook fanno innovazione nel vuoto lasciato da altri soggetti. Ma cosa significa innovazione in questo caso? Pensiamo all’innovazione nella finanza e al ruolo di banche come l’americana Goldman Sachs nel veicolare prodotti finanziari che ben pochi potevano capire. Sappiamo poi quale fu l’impatto della loro “innovazione” sulla crisi economica.

Quindi lei sostiene che è molto importante analizzare aziende come Facebook e Google e il loro ruolo di penetrazione nel settore pubblico…

Assolutamente sì. Le aziende della Silicon Valley sostengono Hillary Clinton e non Trump proprio perché sanno quanto sia importante la loro penetrazione nei settori dello “Stato”. Anche nel settore della sanità pubblica Usa c’è una grande presenza di privati i cui servizi vengono pagati molto bene dal pubblico. Lo stesso si può dire di Uber che, in alcune città e comuni Usa, collabora con le municipalità. I suoi servizi al cittadino vengono in parte pagati dal settore pubblico. Ogni volta che, ad esempio, in Florida prendo una macchina di Uber, una piccola percentuale del costo è sostenuta dalla municipalità. Negli Usa l’istruzione digitalizzata (che significa privatizzata), in parte già ora ma sempre più in futuro, funzionerà cosi.

Non c’è il rischio che, nelle istituzioni scolastiche, a causa di contenuti digitalizzati replicabili ovunque e prodotti dalle imprese private, si diffonda una sorta di “pensiero unico”?

Qualche anno fa c’era un’ondata di ottimismo. Tutti pensavano che con i corsi denominati MOOC (Massive Open Online Courses), l’istruzione online, a distanza, potessero prendere piede ovunque, ma abbiamo visto che non è così. Le aziende hanno scoperto che il costo dell’istruzione online è molto alto e non produce abbastanza guadagni. Quindi è stato in parte abbandonato. Mentre si è sviluppata molto la cosiddetta business education, vale a dire la formazione e l’aggiornamento nei luoghi di lavoro dei manager. Si tratta comunque di mercati instabili. Manca una “filosofia” pubblica a tale riguardo, mentre i privati, per loro natura, investono volta volta dove è più conveniente. Può essere che in una data fase convenga puntare sulla sanità abbandonando settori come l’istruzione; in un’altra fase potrebbero fare scelte ancora diverse. E al settore pubblico non resta che subire tali scelte. Del resto anche l’università e la scuola vivono tempi difficili per via della crisi economica. Mancando i fondi, molte imprese del settore pubblico si rivolgono alle aziende private della Silicon Valley sperando che possano intervenire in settori come la sanità, la scuola, i trasporti. A guidare queste speranze è l’idea che si possa fare di più con meno: do more with less. Paradossalmente questo slogan, do more with less, è tipico degli hacker ma anche di personaggi politici alla Margaret Thatcher.

Come valuta l’atteggiamento dei giovani e giovanissimi verso la rete? Vede il rischio di una totale omologazione o mostrano già di saper fare un uso consapevole della rete?

Succede quello che succedeva agli albori della TV, o quando si è diffuso un certo tipo di fumetti. Si cercano nemici per additarli come i colpevoli delle crisi sociali e culturali che viviamo. Credo ci sia molto di buono nella rete. Io, ad esempio, ho studiato l’italiano e altre lingue con il mio telefonino e il mio iPad, ho studiato parole, regole, fatto esercizi anche in viaggio. E la rete mi consente di personalizzare il mio studio. A questo non voglio rinunciare. Ma ovviamente in rete c’è anche tanta spazzatura. Per molti genitori la tecnologia ha sostituito la baby sitter o la loro presenza, si preferisce mettere in mano ai figli un iPad. Si richiede alla tecnologia un aiuto per supplire a mancanze che sono di altro tipo: mancanza di tempo, stress da troppo lavoro, ecc. Ovvio che non è un problema o una colpa solo della Silicon Valley, ci sono responsabilità anche dei genitori.
Infine ci sono mutamenti anche cognitivi. A tre, quattro anni i bambini usano già questi dispositivi. Sicuramente ciò ha un effetto anche sui processi di apprendimento, qualcosa cambia anche nel cervello. Questi cambiamenti vanno studiati in modo scientifico, non “politico”, non si possono demonizzare tout court.

Un consiglio agli insegnanti su come usare al meglio le opportunità offerte dalla rete e dalle varie piattaforme?

È importantissimo che gli insegnanti siano in grado non solo di usare ma anche di capire questi mezzi: piattaforme, programmi, applicazioni… Dobbiamo anche ricordarci che esistono alternative a Google e Facebook. Sono alternative gratuite, open source, free software. Io ad esempio uso un’applicazione gratuita per studiare le parole in una lingua straniera. Dobbiamo rifiutare la logica della Silicon Valley per cui per ogni problema esiste una applicazione che va comperata. Dobbiamo informarci sulle opzioni alternative e capire quali battaglie il settore pubblico possa intraprendere per creare piattaforme utili a studenti e insegnanti. Le applicazioni sviluppate con soldi pubblici devono essere open source, gratuite e anche realizzate senza ricorrere sempre alle solite poche imprese ma attraverso delle gare d’appalto pubbliche. Non possiamo accettare gli enormi cambiamenti tecnologici senza renderci conto delle regole base dell’economia.

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